Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 07 Ottobre 2016
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=42454

La sensibilità climatica all’equilibrio (ESC), ovvero la variazione della temperatura globale terrestre al raddoppio della concentrazione di anidride carbonica in atmosfera, rappresenta uno dei punti più controversi del dibattito climatico. Le stime sono le più disparate e vanno da valori prossimi allo zero, fino a valori che sfiorano le due cifre. IPCC nel suo ultimo rapporto ha stimato per la sensibilità climatica all’equilibrio un valore minimo di 1,5°C, riducendo di circa mezzo grado il valore indicato nel rapporto precedente, ed un valore massimo di 4,5°C.

Le stime della sensibilità climatica all’equilibrio, in genere, vengono effettuate sulla scorta delle variazioni climatiche registrate nel passato e sono basate, quindi, su dati di prossimità. Una delle principali fonti di dati cui attingono i climatologi sono le carote estratte dai ghiacciai terrestri che hanno consentito di ricostruire la temperatura terrestre e la composizione atmosferica negli ultimi 800.000 anni (il progetto EPICA a Dome C in Antartide per esempio). Altre ricostruzioni sono state effettuate ricorrendo ai sedimenti marini, ai foraminiferi e via cantando. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di serie che presentano molte ed importanti lacune e che forniscono, pertanto, un quadro piuttosto frammentario dell’evoluzione del clima nel corso dei millenni. Poiché le stime dell’ESC devono essere riferite a tempi piuttosto recenti, ciò non ha mai costituito un problema.

Discorso a parte merita un altro indice climatico: la sensibilità della Terra sul lungo periodo (ESS) che riguarda la sensibilità del sistema Terra nel corso delle ere geologiche e che è diversa dalla sensibilità climatica all’equilibrio in quanto coinvolge parametri come l’estensione delle calotte glaciali, la vegetazione e così via: quelle attuali sono diverse da quelle del passato, ovviamente. A scanso di equivoci nel seguito di questo post ogni qualvolta si parla di sensibilità climatica, ci si riferisce alla sensibilità climatica del sistema Terra nel lungo periodo.

Nello scorso mese di agosto la rivista Nature ha pubblicato un articolo di C. W. Snyder in cui l’autrice ha determinato, sulla base di circa 20000 possibili ricostruzioni delle temperature terrestri, un modello delle temperature medie globali terrestri (GAST) negli ultimi due milioni di anni.

Evolution of global temperature over the past two million years

Per poter portare a termine il suo lavoro, Snyder ha utilizzato una metodologia presa a prestito dall’econometria conosciuta come “metodo della variabile proxy”. Vediamo di che cosa si tratta.

In statistica attraverso le varie metodiche di regressione si cerca di stimare il valore di una variabile dipendente sulla base dei valori di un’altra variabile indipendente. In generale si parte dall’ipotesi che un esperimento sia ripetibile a piacere e si individuano le variabili tra loro correlate (per un gas, per esempio, temperatura e volume). Ripetendo un certo numero di volte l’esperimento (teoricamente un numero infinito di volte), si ottengono diversi campioni delle grandezze considerate la cui media tende ad essere il valore vero delle grandezze stesse (teoria dei minimi quadrati). In econometria si abbandona l’ipotesi della ripetibilità e si cerca di ottenere il valore vero della grandezza o parametro al tendere a infinito non del numero dei campioni, ma delle dimensioni di un unico campione, ovvero della lunghezza della serie di osservazioni effettuate una sola volta.
Nel caso in esame le grandezze da correlare sono principalmente tempo e temperatura, ma anche altri parametri come ovviamente la concentrazione di gas serra. Se avessimo a disposizione i dati di temperatura negli ultimi due milioni di anni, non avremmo alcun problema a poter determinare l’andamento delle temperature nel corso dei millenni e correlarlo alle altre variabili di interesse, ma ciò che ci manca è proprio il valore della temperatura nel corso del tempo. Per ovviare a questo enorme problema facciamo ricorso ai dati di prossimità che, però, devono avere due caratteristiche essenziali:

  1. Essere ridondanti;
  2. Essere fortemente correlate a quelle non osservate.

Nella fattispecie Snyder ha utilizzato come principale variabile proxy della temperatura terrestre, la temperatura superficiale del mare (SST) desunta dai carotaggi dei sedimenti marini (una sessantina) prelevati in molte località del globo. Sulla base di questi dati è riuscita ad elaborare una ricostruzione delle temperature superficiali globali terrestri ed un modello delle loro variazioni negli ultimi due milioni di anni con una risoluzione temporale di mille anni.

 

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Nel grafico riportato, tratto dall’articolo di Snyder, si nota come, a partire da due milioni di anni fa, la temperatura superficiale media globale si sia abbassata fino a circa un milione e duecentomila anni fa. Successivamente la temperatura è rimasta piuttosto stabile anche se caratterizzata da oscillazioni ad “alta frequenza” molto evidenti. Snyder ha trovato che tra 1.200.000 anni fa ed 800.000 anni fa le glaciazioni avevano un periodo di circa 41.000 anni. Da 800.000 anni in poi l’intervallo tra le glaciazioni è aumentato, diventando di circa 100.000 anni. Nell’articolo si analizzano le cause di questa variazione di periodo e si fanno diverse ipotesi tra cui la più realistica, secondo il mio modesto parere, è quella della variazione dei parametri astronomici unita a variazioni nella circolazione oceanica che, tra l’altro, non è neanche originale in quanto altre ricerche hanno raggiunto le stesse conclusioni.

Il lavoro di Snyder è notevole in quanto è riuscito a fornirci una ricostruzione della temperatura superficiale globale media che risale molto indietro nel tempo e ciò è un’ottima cosa. La metodologia usata è piuttosto innovativa, ma ampiamente testata nella letteratura econometrica, per cui non possiamo che essere lieti dei risultati ottenuti.  Sempre a mio modesto parere, le conclusioni sarebbero, però, molto indigeste nella comunità climatologica in quanto l’esame del grafico dimostra che le temperature attuali sono nettamente inferiori a quelle del precedente interglaciale e molto inferiori a quelle di due milioni di anni fa.

Le cose possono essere aggiustate, però, senza grossi problemi: basta tirare in ballo il diossido di carbonio, il forcing radiativo et voilà, les jeux sont fait. L’autrice allo scopo di validare il suo operato, sulla scorta di risultati già consolidati nella comunità scientifica, mette in relazione la sua serie di temperature con quella ottenuta a partire dalle carote antartiche di EPICA Dome C, ottenendo un buon livello di correlazione (coefficiente di correlazione di 0,72 ottenuto come “media” tra 0,59 e 0,81). Successivamente mette in relazione la serie di temperature con la serie dei valori della concentrazione di CO2  atmosferica, ricostruita sulla base dei dati EPICA Dome C, ottenendo un coefficiente di correlazione altrettanto significativo di 0,82.

Qui iniziano, secondo me, i problemi. E’ noto, anche se piuttosto contestato, che i picchi termici e quelli della concentrazione di diossido di carbonio desunti da EPICA risultano sfalsati di circa 600 anni. Il dubbio che mi è venuto, riguarda il fatto che si confrontano dati di temperatura (GAST) con risoluzione di 1000 anni, con dati (concentrazione di CO2) caratterizzati da uno sfasamento di 600 anni circa rispetto a quelli della temperatura: se non erro lo sfasamento è comparabile con la risoluzione della serie termica, per cui il confronto mi sembra un po’ ballerino. La cosa che mi fa maggiormente dubitare circa la correttezza delle argomentazioni di Snyder è, però, l’incertezza associata alla nuova serie di temperature che rende del tutto aleatoria la deduzione della sensibilità climatica da essa. Da un punto di vista fisico appare infine poco sensato quanto dedotto dall’autrice. Oggi come oggi una sensibilità all’equilibrio di 1,5/4,5°C richiede un forcing radiativo di circa 1  W/m2, per arrivare ai valori di Snyder bisogna giungere ad un valore del forcing più che doppio e ciò è del tutto irrealistico.

Fatta questa premessa torniamo al lavoro di Snyder. Secondo l’autrice, applicando i modelli del forcing radiativo utilizzati usualmente nella comunità scientifica, è possibile dimostrare che la sensibilità climatica all’equilibrio sperimentata nel passato è molto più alta di quanto si pensi e, mediamente, si aggira su valori di circa 9°C. La conseguenza è ovvia: nel futuro dobbiamo aspettarci temperature medie globali di oltre cinque gradi centigradi maggiori di quelle attuali se, però, la concentrazione di CO2 rispetto all’era pre-industriale resta quella di oggi, altrimenti … sarà peggio di quanto possiamo immaginare. L’unica cosa positiva di tutto ciò è che avverrà tra 1000 e 2000 anni a partire da oggi. Sono sicuro che in quel tempo nessuno si ricorderà del fatto che la dottoressa Snyder sia esistita e che a cavallo del XX e XXI secolo era in corso un dibattito climatico.

Snyder ha dedicato al problema della sensibilità climatica uno spazio piuttosto ridotto nel suo articolo, diciamo un dieci-venti per cento, ma i media generalisti ed i siti specializzati si sono buttati a capofitto sui cinque gradi di aumento delle temperature ed i titoloni si sono sprecati. Senza alcun riferimento alla sensibilità climatica la ricerca sarebbe rimasta nell’ambito degli specialisti senza occupare le prime pagine, e la discussione si sarebbe concentrata su altri punti di debolezza e di forza del suo lavoro, giungendo a risultati costruttivi. Ciò non è successo per il clamore che ha suscitato la parte della ricerca, ripeto minoritaria, che riguarda la sensibilità climatica.

Qualcuno potrebbe obiettare che siccome la parte relativa alla sensibilità climatica non mi piace, la sto demolendo, ma non è affatto vero in quanto del mio stesso parere è anche G. Schmidt che, contrariamente al sottoscritto, è un esperto ed ha la patente per parlare ex cathedra. Su Realclimate il dr. Schmidt non usa mezzi termini e bolla la parte dell’articolo di Snyder, riferita alla sensibilità climatica, con una frase inequivocabile: “This is simply wrong”.

Spiace che Nature sia incappata in uno svarione del genere e che abbia trascinato con se riviste specializzate come “Le Scienze” da cui ho tratto ispirazione per questo post.