Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 19 Dicembre 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=46738

 

 

Negli ultimi mesi, mentre la mastodontica macchina informativa del clima che cambia per effetto dell’aumento della temperatura media globale continua a martellare su ogni genere di media, circolano sommessamente delle voci alquanto sinistre tra gli addetti ai lavori. L’impressione, appena sussurrata per evitare di disturbare i lavori dei summit che ormai si susseguono a ritmo bimestrale, è che il prossimo futuro stia preparando una sorpresa niente male per quanti giurano di aver capito tutto su come funziona il clima di questo pianeta. Gli anni a venire, dicono, potrebbero segnare una tendenza al raffreddamento, in totale contro tendenza con quanto prospettato e, ovviamente, con quanto necessario perché la macchina suddetta non esaurisca il carburante.

Protagonista di questo raffreddamento potrebbe essere il sole, unica vera fonte di energia del sistema, che sarebbe prossimo ad una fase di marcata riduzione della sua attività, non già con riferimento alla quantità di radiazione totale ricevuta dalla Terra (TSI), quanto piuttosto da quel complesso sistema di dinamiche che regolano l’interazione del campo magnetico della stella con quello terrestre, dinamiche che si mostrano attraverso il numero delle macchie solari che compaiono sulla superficie del sole e sono soggette a cicli di circa 11 anni.

Quando queste sono numerose, e l’attività solare è quindi intensa, il flusso di energia che ne deriva verso il nostro pianeta lo protegge dal bombardamento pressoché continuo di raggi cosmici intergalattici, altro flusso di particelle ad elevato contenuto di energia che deriva dall’esplosione di altre stelle all’interno della nostra galassia. Viceversa, quando l’attività solare è bassa, e le macchie sono assenti o poco numerose, una maggiore quantità di radiazione cosmica riesce a raggiungere il pianeta. Teoria vuole che alcuni dei periodi climatici in cui è stata più marcata la variazione della temperatura del pianeta in temi climaticamente recenti, quali l’Optimum Medioevale e la Piccola Età Glaciale, siano stati caratterizzati rispettivamente da fasi di accentuata e scarsa attività solare. Quindi, teoria vuole che all’aumento dei raggi cosmici che raggiungono il pianeta la temperatura diminuisca e viceversa.

Il meccanismo attraverso cui avrebbe luogo questa oscillazione, è nella proprietà dei raggi cosmici di provocare una ionizzazione delle particelle sospese in atmosfera la cui crescita porta poi alla formazione dei nuclei di condensazione, cioè quelli che vengono definiti i “semi” delle nubi. Quindi più raggi cosmici più ioni, più ioni più nuclei di condensazione, più nuclei di condensazione più nuvole. Dal momento che la copertura nuvolosa, nel suo complesso, ha un noto effetto di raffreddamento, le fasi di scarsa attività solare sarebbero associate appunto ad una tendenza all’innesco di modalità climatiche che portano alla diminuzione della temperatura media globale.

In questa teoria, tuttavia, manca all’appello il cosiddetto moltiplicatore, né più né meno come per l’attribuzione delle oscillazioni della temperatura associate all’aumento dei gas serra che necessitano dei feedback per condurre al riscaldamento. Con riferimento all’attività solare, dal momento che le particelle ionizzate sono infinitamente più piccole (circa un milione di volte) delle dimensioni che gli aerosol devono raggiungere per “seminare” le nubi, la sola ionizzazione, chiaramente legata ai raggi cosmici, non avrebbe un ruolo significativo in assenza di un rafforzamento del rateo di crescita delle dimensioni degli aerosol.

Erik Svensmark, scienziato che studia da anni queste dinamiche e che ha di fatto proposto al mondo questa teoria, ha appena pubblicato su Nature Communication i risultati di una lunga campagna di misurazioni sperimentali i cui risultati mostrano che esiste un altro ruolo giocato dagli ioni, ossia quello di contribuire anche alla crescita degli aerosol e di facilitare il raggiungimento della massa adeguata. Questo ruolo, dice Svensmark, varia tra un aumento del rateo di crescita del 5% in caso di scarsa ionizzazione a quello addirittura del 50% quando la Terra è colpita da intensi flussi di raggi cosmici derivati dall’esplosione di supernove nella nostra galassia. Secondo Svensmark, che ha di fatto dimostrato sperimentalmente la sua teoria con due anni di osservazioni all’interno di una speciale camera in cui sono state riprodotte le condizioni atmosferiche ideali, questo secondo ruolo sarebbe l’anello mancante della teoria, il suo effetto moltiplicatore, la sua conferma scientifica (qui l’approfondimento su Eureka Alert).

Ora, non è dato sapere come, a valle di questa importante scoperta, che arrivando Nature Communications sarà stata senz’altro soggetta a rigoroso referaggio, potrà reagire il mondo della scienza del clima. Per facilitarvi la comprensione del problema sarà bene ricordare alcune cose:

  1. Nei modelli di simulazione climatica, che notoriamente funzionano solo a CO2, il ruolo del sole è valutato “ininfluente” in ragione (sragione!) della sostanziale stabilità della radiazione solare totale. Altri effetti dell’attività solare quali quelli descritti in questo nuovo studio non sono neanche presi in considerazione.
  2. Le dinamiche delle nubi costituiscono la più elevata fonte di incertezza nella simulazione del sistema, perché la microfisica delle nubi avviene ad una scala spaziale inferiore al millimetro, e i modelli climatici hanno passi di griglia che vanno dai 50 ai 100 Km.
  3. Nel bilancio radiativo, l’albedo totale del pianeta è pari circa a 30, cioè fatta 100 la quantità di radiazione ad onda corta ricevuta, il 30% di essa viene riflessa dai vari tipi di superfici che la ricevono. La metà di questo lavoro lo compiono le nubi, quindi, una variazione anche di pochi decimi di punto della quantità di nubi presente sul pianeta avrebbe comunque un ruolo significativo; si stima che 1 punto percentuale di variazione della nuvolosità totale sia pari ad una variazione di 0.07°C di temperatura globale.
  4. Benché le si misuri nella loro totalità soltanto da quando sono disponibili i dati satellitari, è noto che la quantità di nubi che occupano globalmente il cielo varia eccome: tra il 1987 e il 2000 è passata dal massimo del 69% al minimo del 64%, una variazione di 5 punti percentuali che in termini di bilancio radiativo vale 0.9 W/m2 in più, una quantità paragonabile con gli 1,6 W/m2 che il Report IPCC del 2007 attribuisce a tutte le forzanti climatiche dal 1750 al 2006, inclusa quella antropica da aumento della concentrazione di CO2 (fonte www.climate4you.com).

A beneficio di quanti si affretteranno a gridare al negazionismo, vorrei fosse chiaro che in termini relativi il contributo positivo alla temperatura media del pianeta dei gas ad effetto serra di origine antropica non è in discussione, mentre lo è in termini assoluti. E’ il “quanto” che conta, e Svensmark, con questo importante articolo ha dimostrato che c’è qualcosa che, in termini assoluti, potrebbe contare parecchio di più di quanto sin qui ci hanno raccontato e che invece la storia climatica di questo pianeta ha sempre testimoniato.

Tra l’altro, per tornare da dove abbiamo iniziato, sembra che dopo l’attuale ciclo solare già piuttosto debole, ne potranno seguire altri ancora più deboli, replicando forse il lungo periodo di scarsa attività solare della Piccola Età Glaciale. Se così dovesse essere e se il clima dovesse effettivamente virare al raffreddamento nelle prossime decadi la Natura offrirebbe alla mosca cocchiera antropica l’occasione buona per darsi una ridimensionata, a meno che non venga rispolverata la vecchia buona teoria che vuole che possa far freddo per colpa del caldo ;-).