Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 16 Gennaio 2018
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=47129

 

Poveretti, mi piace immaginarli ansimanti e con la fronte imperlata di sudore mentre si affannano a concordare una versione dei fatti alternativa con i loro contatti privilegiati presso i giornali e le agenzie di stampa di mezzo mondo:

  • “Hanno scritto che fa freddo!?”
  • “E capirai! Mezza America è nel congelatore…”
  • “Bisogna dire che non fa tanto freddo.”
  • “Trenta gradi sotto zero non è freddo? È tiepido?”
  • “Non hai capito… già non ci fila nessuno, se poi passa anche il messaggio che fa freddo…” 
  • “Allora parliamo di qualche posto dove fa caldo.”
  • “Aspetta, cerco qualcosa e ti faccio sapere.”

Tra la fantasia e la realtà il passo non è così lungo, e talvolta la realtà supera la fantasia stessa. Fatto sta, che la caccia al contro-evento meteorologico in grado di salvare la narrativa è partita per davvero, tambureggiante.

Alaska

Il primo tentativo è stato affidato alla rivelazione che in Alaska faceva caldo, o meglio, meno freddo del solito. In fondo è normale: se fa più freddo della media da qualche parte è perché altrove fa più caldo. Ma l’effetto non deve essere stato granché, visto che la gente l’Alaska ce l’aveva nel giardino di casa, e la storiella della caldana dell’orso polare ha scaldato meno cuori del dovuto. Bisognava parlare di caldo vero, e quindi cambiare emisfero, possibilmente.

Povere bestie

Improvvidamente, nel frattempo, era filtrata la notizia degli squali morti di freddo al largo della costa atlantica, e delle iguane congelate in Florida. Sacrilegio, visto che la narrativa prevede che gli animali possano morire solo di caldo, prima ancora che di malattia o di vecchiaia. Ed ecco quindi servita a reti unificate la messa da requiem mediatica per i pipistrelli che cadono stecchiti a Penrith, nell’entroterra di Sydney, a causa del caldo. Tuttavia, nelle stesse ore in cui La Stampa discetta di pipistrelli bolliti e delle zampe irritate degli opossum, la temperatura a Penrith è già precipitata di 15 gradi, per poi scendere addirittura sotto la media stagionale nei giorni successivi.

New York, New York

In ossequio all’abitudine ormai invalsa negli USA di utilizzare l’attivismo giudiziario come arma politica, arriva la notizia più grottesca: la città di New York, assediata da un gelo epocale, annuncia una causa contro le major petrolifere per non aver avvisato i newyorkesi che sarebbero morti di caldo a causa della CO2. Peccato non possano testimoniare a processo i senzatetto morti di freddo in questi giorni: forse racconterebbero una storia diversa.

E l’Italia?

La provincia dell’impero non rinuncia naturalmente a fare la sua parte, nel suo piccolissimo. Con la Repubblica che ci propone la notiziona della “notte più calda a Roma”: 15 gradi di minima a gennaio. Umanamente comprensibile la rabbia e lo sdegno dei romani per quei maledetti 15 gradi invernali, quando potrebbero essercene 30 sotto zero come nel Massachussets: le fortune capitano tutte agli altri. Ancora una volta, come è normale che sia, al “troppo” caldo italiano fa da contraltare il freddo insolito altrove, con l’eccezionale nevicata nel Sahara algerino che per il Corriere è “climate change”.

Anche la TV fa la sua parte, con una pietra miliare di Mercalli che agitando con fare allarmato un bollettino di allerta valanghe spiega che i metri di neve caduti sulle Alpi sono la prova che c’è il global warming: “perché dovrebbe nevicare a 600 metri di altitudine e non a 1,600… e quindi avevano ragione gli scienziati del clima e i loro modelli”. Apprendiamo quindi che una sciroccata da 2000 chilometri di fetch dovrebbe portare aria polare sull’Italia, nell’optimum glaciale vagheggiato da Mercalli. Resta il fatto che clima e tempo atmosferico, al solito, si passano il testimone secondo le necessità della narrativa.

Dulcis in fundo

Abbandoniamo il meteonanismo italico per chiudere in grande. La Reuters ci informa con straordinario tempismo di uno scoop senza precedenti: l’anteprima esclusiva dell’ennesimo report dell’IPCC, il braccio climatico dell’ONU. Svelato urbi et orbi 9 mesi prima della pubblicazione, il report non dice ovviamente nulla di nuovo, salvo alzare ulteriormente i toni già catastrofici di quelli precedenti: la lotta contro l’odiata CO2 va condotta con ogni mezzo disponibile, ivi compresa la misura estrema (e totalmente demenziale) del sequestro delle emissioni. Bisogna salvare il corallo, e poco importa se l’aumento di CO2 ha già salvato milioni di vite umane, grazie all’incremento della produzione agricola e al global greening: cos’è una vita umana rispetto a un corallo?

Fate in fretta! Grida allarmata l’ONU, perché se si taglia la CO2 ci saranno meno guerre e meno emigrazioni. Il che, detto da chi per decenni non ha mosso un dito per evitare una sfilza infinita di genocidi e di conflitti senza senso, non fa nemmeno ridere. Ma proprio per niente.