Autore: Luigi Mariani
Data di pubblicazione: 28 Febbraio 2018
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=47615

Da 10.000 a 4500 anni fa le copertura glaciali marine artiche si sarebbero mantenute su livelli sensibilmente inferiori a quelli attuali. Lo evidenzia l’indagine paleoclimatica di Stein et al. uscita nel 2017 su Journal of Quaternary Science in cui si riportano stime di copertura glaciale marina olocenica per mare di Chukchi, mar della Siberia orientale, mare di Laptev e stretto di Fram. A quando i titoloni su Corriere della Sera, Tg5 e c. ?

Innumerevoli testimonianze documentali ci parlano della Piccola Era Glaciale (PEG) e degli enormi problemi per le popolazioni europee che la stessa determinò. Su tale fase hanno ad esempio scritto Lamb (1966), Le Roy Ladurie (1967, 2004) e Le Roy Ladurie e Rousseau (2009). Relativamente bene documentati son altresì l’optimum climatico medioevale, romano e miceneo e le fasi di deterioramento che li separano (Monterin, 1937; Behringer, 2013). Assai meno documentata è invece la fase nota come grande optimum postglaciale, che fu di grandissima rilevanza per la nostra civiltà poiché nel corso di essa si ebbe ad esempio l’espansone dell’agricoltura dal medio Oriente all’intero continente europeo.

Ed è proprio da alcuni proxy riferiti all’Oceano glaciale artico che prende le mosse un lavoro scientifico che porta un contributo di conoscenza importante per chiarire gli effetti del grande Optimum Postglaciale nell’areale artico. Mi riferisco allo scritto di Stein et al. (2017) che si basa su un proxy biologico costituito da un isoprenoide molto ramificato a 25 atomi di carbonio noto come C25 – HBI monoene (alias IP25), il quale viene sintetizzato unicamente da alcune diatomee che vivono nell’Oceano Glaciale Artico. Per interpretare i livelli di tale molecola nei sedimenti marini si deve considerare che nei mari artici le fasi calde sono caratterizzate dal proliferare di diatomee (e dunque da più elevate concentrazioni di IP25) a causa delle temperature più elevate, della maggiore disponibilità di radiazione solare e del maggiore afflusso di masse d’acqua ricche di nutrienti dall’Oceano pacifico. Da ciò il fatto che i ricercatori si sono trovati improvvisamente per le mani un proxy che descrive le coperture glaciali marine con una accuratezza prima impensabile.

Occorre tuttavia considerare che IP25 è assente sia in totale assenza di ghiacci marini sia in presenza di una copertura glaciale permanente che impedisce alla radiazione solare di raggiungere le diatomee. Le due situazioni estreme possono essere tuttavia discriminate in modo efficace lavorando con altri proxy anch’essi legati al fitoplankton.

PIP 25 offre una stima di copertura glaciale marina che gli autori definiscono “semi-quantitativa” (che credo stia per “stima quantitativa affetta da un certo livello di incertezza”). Dall’analisi di tale indice emerge che gran parte dell’Olocene è trascorso con coperture glaciali marine inferiori a quella attuale. Coperture paragonabili a quelle odierne si sono avute solo negli ultimi 4500 anni toccando il proprio apice nella PEG (Piccola Era Glaciale).

In particolare si vedano i diagrammi delle figure 3 e 4 in cui si descrivono gli andamenti delle coperture glaciali marine nel mare di Chukci e nel mar della Siberia Orientale. Indicazioni analoghe sono inoltre emerse analizzando i digrammi PIP25 riferiti ai cores estratti nello stretto di Fram, che divide le Isole Spitzbergen dalla Groenlandia, e nel mare di Laptev, il che lascia intendere che il fenomeno evidenziato non è qualcosa di locale e limitato ai mari di Chukci e della Siberia Orientale indagati ma si estende a parti rilevanti dell’Oceano Glaciale Artico.

Conclusioni

In sintesi dal lavoro di Stein et al. mostra che le copertura glaciali marine nell’oceano glaciale artico sono state a lungo su livelli inferiori a quelli attuali. Ciò ha avuto luogo in particolare in un periodo che si estende da 10.000 a 4500 anni orsono ed al cui cuore sta il grande optimum postglaciale.

I dati oggi disponibili ci mostrano dunque un “verità provvisoria” (come tutte le verità scientifiche, del resto) e che tuttavia ha il grande difetto di rivelarsi “scomoda” per tutti coloro che per anni hanno operato per accreditare la fase di arretramento glaciale odierna come un “unicum”. Da ciò deduco che sarà arduo vedere tale verità presentata dai grandi media.

Per comodità del lettore riassumo l’affresco generale che a mio avviso va oggi delineandosi:

  1. Nell’interglaciale Riss-Wurm, 125.000 anni orsono, la calotta glaciale groenlandese, a differenza di oggi, era quasi totalmente fusa e gli oceani erano più alti di 5-8 metri rispetto ad oggi. Tale evidenza emerge fra l’altro dalle scansioni del ghiaccio del plateau groenlandese da cui si è appreso che il ghiaccio della calotta groenlandese deriva per il 50% dalla glaciazione di Wurm e per il 50% restante si è formato in olocene; inoltre al di sotto di tale ghiaccio sopravvivono solo pochi brandelli di ghiaccio dell’era glaciale precedente (Riss) (Mc Gregor et al., 2015).
  2. Al termine della glaciazione di Wurm ha avuto luogo una fase particolarmente calda (grande optimum postglaciale) in coincidenza con la quale i ghiacci artici sono arretrati in modo rilevantissimo.
  3. Al termine del grande optimum postglaciale ha avuto inizio un processo di “neoglaciazione” che ha visto il proprio apice con la Piccola Era Glaciale, sfociata circa 150 anni orsono nell’optimum oggi in corso.

Un andamento analogo l’hanno probabilmente avuto i ghiacciai alpini ed appenninici, anche se non si deve mai scordare che il comportamento dei ghiaccia non dipende solo dalle temperature ma anche dalle precipitazioni.

Tutto ciò porta per l’ennesima volta a porre in evidenza le forzature operate sui dati provenienti dall’area artica e che mirano ad accreditare l’idea di eventi di scioglimento senza precedenti. In proposito ricordo la rara sintesi offertaci da “An inconvenient truth” di Al Gore, un film a dir poco “visionario” e che ha creato una immensa pletora di emulatori. A Gore oggi manca solo l’Oscar alla carriera e penso che qualcuno prima o poi glielo darà.

Figura 1 – l’area geografica di riferimento dello studio

Figura 2 – Modifiche al territorio in esame dovute alle variazioni di livello del mare indotte dalle ciclicità glaciali. I punti rossi indicano i siti di campionamento considerati nello studio di Stein et al (2017)..

Figura 3 – trend delle coperture glaciali marine nel mare di Chukchi (core ARA2B-1A). La linea continua è basata sul Brassicasterolo mentre quella tratteggiata sul Dinosterolo.

Figura 4 – trend delle coperture glaciali marine nel mar della Siberia Orientale (core PS72/350).

Bibliografia

  • Behringer W., 2013. Storia culturale del clima, Boringhieri, 349 pp.
  • Lamb H.H., 1966. The changing climate, Methuen, London, 236 pp.
  • Le Roy Ladurie E., 1969. Tempo di festa, tempo di carestia, Storia del clima dall’anno 1000. Einaudi, 1969, 449 pp.
  • Le Roy ladurie E., 2004. Histoire humaine et comparée du climat. I. Canicules et glaciers (XIIIe-XVIIIe siècles), Flammarion, Paris.
  • Le Roy Ladurie E., Rousseau D., 2009. Impact du climat sur la mortalité en France, de 1680 à l’époque actuelle, La meteorologie, n. 64, Febrier 2009, 43-53.
  • McGregor etal 2015 Radiostratigraphy and age structure of the Greenland Ice Sheet, Journal of geophysical research, Earth surface, Volume 120, Issue 2, pages 212–241, February 2015
  • Monterin U., 1937. Il clima della Alpi ha mutato in epoca storica?, CNR, Roma.
  • Stein R,, Fahl K., Schade I., Manerung A., Wassmuth S., Niessen F., Seung-Il Nam, 2017. Holocene variability in sea ice cover, primary production, and Pacifc-Water infow and climate change in the Chukchi and East Siberian Seas (Arctic Ocean), Journal of Quaternary Science (2017) 32(3) 362–379 ISSN 0267-8179. DOI: 10.1002/jqs.2929.