Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 19 Giugno 2018
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=48683
Mi sono interessato alla problematica della variazione di massa glaciale continentale, durante le lunghe ore passate a studiare il trend di variazione del livello del mare.
La variazione del livello del mare dipende infatti in misura considerevole dall’apporto di massa conseguente allo scioglimento delle calotte glaciali terrestri, mentre è del tutto indifferente allo scioglimento dei ghiacci galleggianti. Detto in altri termini se si sciogliessero completamente i ghiacci marini antartici o artici, il livello del mare non subirebbe variazioni. Qualora si sciogliessero completamente le calotte glaciali della Groenlandia e dell’Antartide, invece, il livello del mare subirebbe aumenti di oltre un centinaio di metri.
Oggi la discussione verte essenzialmente sul tasso di variazione della velocità di aumento del livello del mare e, in particolare, sull’influenza su tale tasso di variazione di tre parametri principali: aumento del contenuto di calore degli oceani (contributo sterico), scioglimento delle calotte glaciali terrestri e variazione del regime delle acque superficiali e sotterranee (che rappresentano, entrambe, il contributo di massa). La parte del leone nel determinare il tasso di variazione della velocità con cui cambia il livello del mare, a causa del contributo di massa, la fanno le calotte glaciali antartica e groenlandese. Per capire come evolverà il livello del mare, è, pertanto, necessario capire quanta parte della massa glaciale della calotta antartica e di quella groenlandese si stanno sciogliendo e come varia nel tempo questa quantità.
Da un punto di vista quantitativo il problema è estremamente complicato, in quanto non siamo in grado di calcolare con certezza né il valore assoluto, né quello relativo al tempo, della massa glaciale terrestre che si trasforma in acqua liquida. La parte più spinosa di questo problema è costituita dalla quantificazione della massa glaciale continentale antartica che si sta sciogliendo e di come questa quantità vari nel tempo.
Dal punto di vista operativo tre sono i metodi di stima della variazione della massa glaciale terrestre: metodo altimetrico, metodo gravimetrico e metodo input-output.
Il metodo altimetrico è basato su rilievi effettuati con altimetri imbarcati su satellite che registrano le variazioni di livello della superficie ghiacciata, rispetto ad una serie di punti fissi. Il problema principale di questo metodo deve ricercarsi proprio nei punti di riferimento, quelli che ho impropriamente definito fissi. In realtà di fisso sulla superficie terrestre vi è ben poco, per cui bastano piccole variazioni nella quota dei punti di riferimento e scadimenti qualitativi dell’altimetro satellitare (conseguenti alla variazione delle caratteristiche atmosferiche o orbitali del satellite) e tutto il castello di carte va a farsi friggere.
Il metodo gravimetrico è basati sulle variazioni di gravità rilevate da satelliti gemelli (GRACE, per esempio) che orbitano intorno al nostro pianeta. Poiché il ghiaccio ha una massa ben precisa, è ovvio che passando ripetutamente sullo stesso punto nel corso del tempo, le anomalie gravitazionali rilevate dagli accelerometri basati sui satelliti, sono una conseguenza della variazione della massa del ghiaccio. Neanche questo metodo è, però, esente da difetti.
Per capire di cosa stiamo parlando, è necessario fare un passo indietro nel tempo e tener presente un aspetto della dinamica terrestre che a volte ci sfugge. Partiamo da un breve cenno relativo alla struttura della Terra: la crosta terrestre “galleggia” sul mantello che è molto più deformabile della scrosta stessa, diciamo che ha un comportamento elasto-plastico o viscoso. La viscosità del mantello non è costante per cui il suo comportamento varia da punto a punto. Dall’inizio dell’Olocene si è verificata la de-glaciazione della Terra e, conseguentemente, una diminuzione del carico gravante sul mantello e, quindi, un innalzamento dello stesso in alcuni punti ed un abbassamento in altri.
Quando la superficie terrestre è coperta da una coltre di migliaia di metri di spessore di ghiaccio, come accade durante le glaciazioni, il mantello si abbassa sotto la calotta glaciale e si alza sui bordi. E’ lo stesso fenomeno che si verifica quando si cammina sulla sabbia bagnata: sotto il piede la sabbia si abbassa, immediatamente all’esterno essa si solleva.
Quando si comprime una molla e, successivamente, la si lascia libera notiamo che essa durante la compressione si accorcia mentre durante la decompressione si allunga: il tutto è conosciuto come comportamento elastico dei corpi. Nel caso del mantello ci troviamo di fronte, però, non a fenomeni elastici come quello relativo alla molla, ma a fenomeni elasto-plastici o viscosi, per cui, mentre nel caso della molla il recupero di forma è immediato, nel caso del mantello sono necessari migliaia di anni. La circostanza incide sia sui dati desunti dai metodi gravimetrici, sia su quelli generati dai metodi altimetrici.
Appare subito evidente che sia le variazioni di gravità che quelle altimetriche misurate dai satelliti, dipendono anche dal recupero isostatico glaciale (da ora in poi indicato con l’acronimo inglese GIA) e non solamente dalla perdita o acquisto di massa. Quanta parte della variazione di gravità misurata è dovuta al GIA e quanta parte è dovuta allo scioglimento dei ghiacci o alla deposizione di nuova massa (nevicate)? Allo stato attuale dell’arte nessuno lo sa con certezza, in quanto non siamo in grado di conoscere quanto vale GIA. L’assestamento isostatico glaciale dipende da diversi fattori che, a loro volta, variano da zona a zona: la granulometria dell’olivina del mantello, l’entità dei flussi di calore geotermico, le variazioni meccaniche connesse alla velocità di rotazione terrestre, ecc., modificano le caratteristiche fisico-meccaniche che regolano l’assestamento isostatico del mantello. Detto in altri termini il mantello non ha la stessa viscosità ovunque, per cui bisogna andare a calcolare GIA punto per punto. Oggi come oggi si utilizzano modelli fisico-matematici estremamente complessi che sono costituiti da un mosaico di modelli più semplici, ognuno dei quali tiene conto di uno o più parametri tra quelli che ho sinteticamente indicato nelle righe precedenti. Ebbene, questi modelli ci consentono di effettuare delle stime dell’assestamento isostatico glaciale punto per punto.
Siccome il mantello è caratterizzato da una superficie e da un volume, esistono due tipi di modellazione del suo comportamento: quello unidimensionale e quello tridimensionale. La differenza tra le due tecniche consiste, ovviamente, in una diversa onerosità del calcolo. Sulla base di alcuni studi sembrerebbe che la reologia tridimensionale e quella unidimensionale non diano risultati molto differenti, ma la discussione in materia è ancora aperta. Per chi volesse approfondire la questione, molto interessante mi è parso un articolo pubblicato nel 2015 da W. van der Wal e colleghi (W. van der Wal et al, 2015). Solo per inciso preciso che W. van der Wal et al, 2015, ha potuto accertare che il modello tridimensionale del GIA, fornisce risultati più aderenti ai dati GPS relativi al livello del mare ed alle variazioni delle masse glaciali continentali.
Nel caso dell’Antartico la stima delle variazioni regionali della variazione di massa glaciale è resa ancora più complicata dalla differente viscosità del mantello al di sotto dell’Antartide Occidentale e dell’Antartide Orientale. Il risultato di tutta questa complessità è splendidamente esemplificato da questa tabella tratta da W. van der Wal et al, 2015 (tab. 2):
Dalla tabella si vede che, a seconda del modello GIA preso in considerazione, la variazione di massa glaciale dell’Antartico varia in modo estremamente consistente. Ho provato a fare qualche calcolo ed ho ottenuto un valore dell’incertezza della stima pari al 32% circa: detto in altri termini, confrontando il valore massimo con quello minimo (entrambi possibili) si ottiene un rapporto quasi pari a due. Il discorso appena concluso dimostra che quando si parla di GIA, si affronta un argomento piuttosto scivoloso, per usare un eufemismo.
Solo due parole per il terzo metodo di stima del bilancio di massa glaciale dell’Antartide, ovvero il metodo di input-output. In questo caso si utilizza un modello per simulare le precipitazioni nevose (input) ed a queste si sottraggono le perdite per sublimazione (stimate con un altro modello) e quelle legate al deflusso ottenuto dallo scarico a mare dei fronti glaciali (ottenuti da un terzo modello). Anche questo metodo è fondato su dati satellitari.
Il gruppo internazionale di ricerca IMBIE (Ice Sheet Mass Balance Inter-Comparison Exercise) è partito da questa situazione di fatto ed ha cercato di ottenere una stima più precisa del bilancio della massa glaciale antartica. I risultati sono stati pubblicati su Nature in un recente articolo:
Mass balance of the Antarctic Ice Sheet from 1992 to 2017 (da ora IMBIE, 2018).
L’articolo è stato oggetto di un recente post a firma di G. Guidi qui su CM, ma a mio modesto giudizio, merita qualche considerazione in più alla luce di quello che ho scritto fino ad ora.
Riassumendo brevemente quanto ha già scritto G. Guidi, i ricercatori hanno raggiunto la conclusione che la calotta glaciale antartica, dal 1992 al 2017, ha perso circa 3000 miliardi di tonnellate di ghiaccio. In questo post non vorrei soffermarmi troppo sul valore assoluto del saldo negativo, ma sul tasso di variazione della perdita di massa glaciale in funzione del tempo: considereremo pertanto la derivata prima della massa glaciale rispetto al tempo (dM/dt) in modo conforme a quanto hanno fatto gli autori dell’articolo.
IMBIE, 2018 svolge un lavoro di rianalisi di 23 serie di dati: 14 gravimetrici, 7 altimetrici e 2 elaborati mediante metodo input-output (Extended data fig. 1). Lo studio consiste nel “comporre” queste serie di dati (diversi per tipologia ed estensione temporale) in modo da avere un’unica serie numerica che copra l’intero periodo compreso tra il 1992 ed il 2017. Bisogna precisare, infatti, che allo stato esiste una sola serie di misure (su base altimetrica) che copra tutto il periodo preso in esame, per cui l’unico modo per ottenere un dato unitario è quello di comporre le serie a disposizione.
IMBIE, 2018 ha innanzi tutto diviso l’Antartico in tre regioni (Penisola Antartica, Antartico Occidentale ed Antartico Orientale), suddivise, a loro volta, in molteplici bacini di drenaggio del ghiaccio e, successivamente, ha calcolato la variazione di massa glaciale per ognuna di queste tre zone. La variazione di massa glaciale, calcolata per l’intero continente antartico, è stata ottenuta sommando algebricamente le variazioni di massa calcolate per ognuna delle singole aree prese in considerazione. Essi hanno trasformato, infine, le perdite di massa (regionali e globali) in contributo alla variazione del livello del mare, ottenendo il grafico seguente.
Stando alle conclusioni di IMBIE, 2018 l’Antartico Orientale non ha subito variazioni di massa o, per essere più precisi, evidenzia un leggero aumento di massa. La penisola Antartica perde massa, ma in modo costante, anzi negli ultimi anni sembra che il tasso di variazione delle perdite di massa glaciale si sia stabilizzato intorno ad un valore costante. Ciò che preoccupa è il tasso di variazione della perdita di massa dell’Antartico Occidentale: a partire dal 2005 la variazione della massa glaciale è fortemente aumentata. Nel breve video che ho citato, ma anche nella mappa che fa da sfondo al grafico, le zone rosse sono quelle caratterizzate da perdita di massa, quelle azzurre da aumento di massa, mentre in quelle bianche non si ha nessuna variazione di massa glaciale.
Come gli autori tengono a sottolineare, il loro studio non fa ricorso a metodologie di omogeneizzazioni statistiche, per cui i dati sono quelli grezzi desunti dai 23 studi che sono citati in bibliografia. La composizione delle serie è stata ottenuta facendo coincidere le parti in cui esse si sovrappongono. A questo punto è necessario fare alcune considerazioni.
Il primo aspetto che balza agli occhi è l’ampiezza della fascia di incertezza dei dati. Come ha sottolineato robertok06 in un commento al post di G. Guidi, la fascia di incertezza è confrontabile alla misura: l’incertezza relativa della misura è di circa il 50%. Si tratta di valori enormi che si giustificano essenzialmente con la grande incertezza nel calcolo del GIA e con l’incertezza connessa con i metodi input-output. Gli autori hanno effettuato le loro stime, assumendo per GIA la media di 12 modelli di stima del suo valore (la maggior parte globali ed alcuni regionali). I modelli presi in considerazione forniscono valori di GIA che oscillano tra 12 Gt/anno e 81 Gt/anno: 56 Gt/anno è la media dei 12 valori presi in considerazione. Questo dato fa traballare, a mio modesto avviso, tutto l’impalcato su cui si basa IMBIE, 2018. Mi spiego meglio. GIA è positivo quando i sensori satellitari lo vedono come un aumento di massa glaciale, negativo in caso contrario. Ciò significa che la variazione di massa glaciale, misurata a partire dai dati satellitari, deve essere depurata del valore di GIA. Ipotizzando una diminuzione della massa glaciale (come accade nella realtà), GIA va sommato algebricamente alla variazione negativa per cui rende maggiore, in valore assoluto, la diminuzione. Si intuisce, pertanto, che se GIA fosse pari al valore minimo, ci troveremmo di fronte ad una relativamente piccola diminuzione della massa glaciale, viceversa, se GIA assumesse il valore massimo, ci troveremmo di fronte ad una grande diminuzione della massa glaciale. Lo stesso ragionamento va rifatto, ovviamente al contrario, se GIA viene visto dai satelliti con il segno meno. A questo punto si capisce che se io non conosco in modo preciso quanto vale GIA, ho grande difficoltà a capire di quanto varia la massa glaciale.
Si potrebbe pensare che essendo GIA un valore pressoché costante in 25 anni, se io alla massa di oggi (sbagliata quanto si vuole) detraggo quella di 25 anni fa, dovrei eliminare l’errore e trovarmi con la variazione della massa glaciale. Non è così semplice. In primo luogo la variazione di GIA può essere caratterizzata anche da oscillazioni ad alta frequenza, decadali o sub decadali, a seconda del flusso geotermico. In secondo luogo i dati messi a confronto non sono omogenei. Dal 1992 al 2017 (vedi Extended data fig. 1) abbiamo una sola serie di dati continua. Tutte le altre coprono una parte del periodo preso in esame. In particolare i metodi gravimetrici coprono solo il periodo compreso tra il 2005 ed il 2017: meno della metà della serie. Questo comporta due ordini di problemi. Il primo riguarda la disomogeneità dei dati posti a confronto, il secondo la lunghezza della serie di dati che non consente di escludere oscillazioni ad alta frequenza le cui cause ci sfuggono. Ciò non significa che dobbiamo sottovalutare la situazione, ma che dobbiamo essere cauti nell’estendere al futuro più o meno lontano le conclusioni.
Se passiamo ad Extended data fig. 5, possiamo vedere chiaramente che le oscillazioni ad alta frequenza non devono essere considerate un fatto impossibile: i dati su base gravimetrica dimostrano, almeno per la regione dell’Antartico orientale, una forte variabilità in tutto il periodo preso in esame. La disomogeneità dei dati appare evidente mettendo a confronto i dati su base altimetrica con quelli a base gravimetrica e con quelli basati su metodi input-output. Per la Penisola Antartica e l’Antartico orientale i dati altimetrici ed alcuni gravimetrici evidenziano una variazione di massa poco diversa da zero (diciamo che oscilla intorno allo zero). Quelli basati sull’input-output ed alcuni gravimetrici, evidenziano, invece, una perdita di massa consistente per la Penisola Antartica ed un andamento che oscilla intorno allo zero per la parte orientale del continente.
Nel caso dell’Antartide occidentale, invece, il dato è costante sia per i dati gravimetrici che per gli altri: si registra una diminuzione di massa a partire dal 2005 circa e fino ai giorni nostri. Si tratta di un evento inedito e definitivo o di un fatto temporaneo? Non siamo in grado di dirlo e, ad onor del vero, non lo dicono neanche gli autori dell’articolo che si augurano di poter continuare le ricerche anche per il futuro, in modo da seguire l’evoluzione di un fenomeno preoccupante.
E per concludere un piccolo passo indietro. Il grafico che rappresenta il contributo all’aumento del livello del mare della perdita di massa della calotta glaciale antartica, evidenzia un brusco cambio di pendenza in corrispondenza del 2005. Considerando che in quel periodo cominciarono ad essere utilizzati i metodi gravimetrici e che essi fanno registrare una fortissima diminuzione di massa glaciale nell’Antartico occidentale proprio tra il 2005 ed il 2010, non vorrei che questa accelerazione nell’aumento del livello del mare, fosse frutto di un fatto accidentale legato ad un’oscillazione ad alta frequenza, visto che negli anni successivi il trend si è stabilizzato e, secondo alcune serie di dati, addirittura invertito.
Come si può intuire da tutto quello che ho scritto, le variazioni di massa glaciale ci sono e questo è fuori di dubbio. Il problema è stabilire la loro entità, quantificare, cioè, il problema. E qui abbiamo grandi difficoltà dovute alle enormi incertezze che caratterizzano i metodi di stima utilizzati. Analogo problema riguarda l’evoluzione nel tempo di queste variazioni di massa: sono aumentate o sono costanti nel tempo? Dai dati in nostro possesso non possiamo fornire una risposta univoca. E, infine, resta un problema di attribuzione. A cosa sono dovute queste variazioni di massa? Sono una conseguenza del riscaldamento globale o una conseguenza del fatto che ci troviamo in un interglaciale? Dipendono da variazioni delle caratteristiche geodinamiche e geotermiche del mantello e della crosta o da fenomeni legati alla temperatura delle acque oceaniche? E, per finire, perché la parte occidentale dell’Antartico si comporta in modo molto differente da quella orientale?
IMBIE, 2018 non offre risposta a nessuna di queste domande e, credo, che nessuno sia in grado di dirlo. Per quel che mi riguarda, sono dell’avviso che dobbiamo solo aspettare e vedere come evolvono gli eventi. Anche perché l’Antartico occidentale, vuoi per la presenza di vulcani sub-glaciali, vuoi per la tendenza alla frammentazione delle piattaforme glaciali galleggianti, vuoi per il fatto che GIA è diverso da quello dell’Antartico orientale, si comporta in modo anomalo e, pertanto, merita grande attenzione.