Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 22 Marzo 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=44035

 

Qualche settimana fa lo psicodramma dell’ennesima scissione dell’atomo della politica italiana ci ha regalato, nel suo momento topico (!) una insolita spruzzatina di internazionalismo, proprio come in certi cine-panettoni di De Sica: riflettori puntati per un attimo sulla California, quindi, per parlare di “lavoro, sviluppo e innovazione”. E come declinare queste parole piene di speranza in salsa californiana, se non parlando di Elon Musk?

È quello che faremo anche noi in questo articolo: parleremo di Elon Musk, e di lavoro, sviluppo e innovazione. E non di politica nostrana, che è servita in questo caso solo a fornire un prezioso assist per affrontare tematiche che, volenti o nolenti, con il clima e l’ambiente hanno a che fare, eccome.

Il Genio

Cominciamo col dire che Elon Musk gode presso la stampa liberal-mainstream di un privilegio non da poco: la qualifica indiscussa di “genio”. Qualcuno parla, più prudentemente, di “genio visionario”, come a dire che se tutto questo genio non riesci proprio a vederlo, è solo perché tu non hai la sua vision.

Elon Musk è il proprietario di Tesla, la multinazionale integrata che produce macchine elettriche, batterie, pannelli solari. Insomma, l’azienda che piace a chi pensa di salvare il mondo abbattendo le emissioni di CO2. Che tali emissioni vengano solo spostate altrove, o che vengano abbattute a danno dei produttori rivali e dell’ignaro consumatore (come vedremo) è solo un dettaglio. Musk, del resto, è uno che parla bene: un oratore, un conferenziere nato. Un venditore di sogni, di futuri tecnologici verdi, accattivanti e salvamondo.

Tra i tanti discorsi vale la pena citare quello fatto in occasione della COP21. Un discorso pro-domo-sua, evidentemente, ma che è stato tradotto in tutte le lingue nelle sue 7,000 parole all’insegna del catastrofismo climatico incombente e condito di affermazioni a dir poco opinabili snocciolate con staordinaria disinvoltura. Che nell’era della comunicazione basti vestirsi di nero, sfoggiare un sorriso smagliante, parlare di pannelli, macchine elettriche, cyborg e intelligenza artificiale per essere definito “genio” non deve sorprendere. Se poi lo si fa con la nonchalance di chi è venuto dal futuro ad informare noi scettici pidocchiosi dell’eldorado prossimo venturo, allora la qualifica appare ancora più appropriata.

Ma se lo si fa con alle spalle una realtà industriale che non ha prodotto il becco di un quattrino di utile nemmeno per sbaglio, colleziona bilanci in rosso come un’Alitalia all’ennesima potenza, sperpera denaro pubblico come il peggior baraccone parastatale, e nonostante questo capitalizza più di 40 miliardi di dollari, beh… Allora la qualifica di genio appare più che giustificata. Diamo allora un’occhiata ancor più nel merito.

Un buco nero

Forse è vero che Musk viene dal futuro, e forse ha viaggiato indietro nel tempo servendosi di un buco nero. Quel che è certo è che il buco nero l’ha ricreato in questa dimensione fondando le sue aziende, e accumulando negli anni perdite disastrose.

Tesla è stata fondata nel 2003 ma ha senso limitare l’analisi ai dati di bilancio degli ultimi 6 anni visto che il modello più popolare, la “Model S”, risale proprio al 2012, e la produzione di autoveicoli su scala industriale si può assumere sia partita proprio da allora.

Cominciamo col dire che la società non ha mai prodotto utili. Al contrario, ha accumulato perdite crescenti nel tempo, per un totale di circa 2,6 miliardi di dollari negli ultimi 6 anni. La performance del titolo è testimoniata dall’EPS, ovvero dal guadagno per azione, sempre negativo e compreso tra -0.62 e -6.93 dollari.

Addirittura spettacolari le perdite nel 2011 e 2012: considerata la quotazione di allora del titolo, la società produceva perdite annuali per l’equivalente di circa il 10% del suo valore. Ma erano tempi di investimenti ingenti e pochi ritorni, si dirà… Di certo le overhead, ovvero i costi indiretti non strettamente legati alla produzione, erano considerevoli già allora: addirittura superiori allo stesso fatturato.

Con l’avviamento della produzione su scala industriale, aumenta vistosamente il fatturato ma con questo anche i costi di produzione e quelli indiretti, con il risultato di aggravare ulteriormente i conti. È nel 2015, infatti, che si realizza la perdita-monstre di quasi un miliardo di dollari a dispetto di un incremento notevole del fatturato accompagnato, tuttavia, da una ulteriore esplosione dei costi. L’esercizio appena concluso non mostra variazioni significative: a fronte di un aumento del fatturato pari al 75% circa, le perdite rimangono infatti ingentissime, con quasi 800 milioni di dollari dilapidati nel 2016 e un EPS di -4,68 $. In altri termini l’azienda nel 2016 ha bruciato valore per circa il 2% della sua capitalizzazione.

Ma la vera domanda è proprio questa: come è possibile che il titolo  capitalizzi 42 miliardi di dollari a dispetto di una realtà fatta, finora, esclusivamente di perdite sanguinose?

 

Tab.1. Principali indicatori di performance per Tesla. Fonte: www.marketwath.com

 

Great Expectations

Non è mai stato difficile come oggi dare un valore ai titoli azionari, visto che a Wall Street il P/E ratio medio (rapporto prezzo-utili) si trova in vicinanza dei massimi storici, ovvero, le azioni costano molto più della media storica rispetto ai loro utili. È l’effetto dei Quantitative Easing promossi a più riprese dalle banche centrali di tutto il mondo, che hanno contribuito a creare bolle in tutte le asset class.

Ovviamente anche Tesla si è avvantaggiata della bonanza azionaria, ma la vera ragione per l’esplosione della capitalizzazione della società è da ricercarsi nelle aspettative enormi create dalle capacità oratorie (ovvero di marketing) di Elon Musk. Dickens le chiamarebbe “Great Expectations”.

Di anno in anno, tuttavia, le promesse di redditività e le aspettative di azionisti ed analisti sono andate deluse, e le Great Expectations sono state spostate sempre più in avanti, così come le date di produzione dei nuovi modelli, in un contesto in cui la retorica del futuro-meraviglioso prevaleva comunque sulla perdita di fiducia nelle promesse del management. In particolare, con grande fanfara si è strombazzata da tempo la messa in produzione della Model 3 che nelle intenzioni del management dovrebbe essere il modello della consacrazione. Anche in questo caso, tuttavia, alla politica degli annunci non sta facendo seguito la realtà dei fatti, sebbene la retorica in questione abbia comunque premiato il titolo, pur a fasi alterne.

Il grafico di seguito mostra quello che è stato definito l’hype-cycle di Tesla, ovvero il “ciclo degli annunci”: si nota come il titolo salga in coincidenza di mirabolanti annunci smentiti sistematicamente poco dopo con annesso (temporaneo) crollo delle quotazioni, in attesa dell’annuncio successivo.

Geniale, vero?

 

Fig.1. Il circo degli annunci di Tesla. Fonte: www.zerohedge.com

Una società “integrata”

Tesla vanta orgogliosamente di essere la società che “grazie all’acquisizione di SolarCity è diventata l’unico gruppo energetico sostenibile integrato, dalla generazione, all’accumulazione, al trasporto”.

Ma come si è realizzata questa integrazione? Essenzialmente attraverso un bail-in, ovvero l’acquisto di una società sull’orlo del fallimento (SolarCity, appunto) di proprietà dello stesso Musk e di suo cugino. Il solare mondiale, in effetti, se la passa molto male. Nel 2016 è fallita SunEdison, il principale player mondiale del settore, e la crisi ha travolto l’intera industria per l’effetto combinato della riduzione degli incentivi statali e del dumping del prezzo dei pannelli da parte dei produttori cinesi, pesantemente sovvenzionati dallo Stato. Il crollo del prezzo del greggio, d’altra parte, rende gli investimenti nel solare ancora più ingiustificati da un punto di vista economico, non fosse per gli incentivi (di cui parleremo più avanti).

L’acquisizione di SolarCity, quindi, si è configurata come una fusione di debolezze: una società automobilistica in perdita perenne, e un player fotovoltaico semi-fallito. A pagare, come al solito, è Pantalone: nei panni dell’azionista costretto a contribuire agli aumenti di capitale tappa-buchi, ma presentati come “funzionali alla crescita”. L’ultimo aumento di capitale è stato annunciato pochi giorni fa: 1.15 miliardi di dollari, che ai ritmi attuali verrebbero bruciati in circa 15 mesi.

Da un punto di vista puramente strategico, per altro, l’integrazione non sempre paga, anzi… Concetto reso magistralmente da Marchionne che tra una stilettata e l’altra (“bisogna vendere auto, e guadagnare”) fa notare che quando la tecnologia sarà matura, le grandi case automobilistiche ne faranno uso, senza troppi sforzi (comprando le batterie da fornitori sul mercato) e solo a patto di ottenere dei profitti. Elementare Watson, e del tutto opposto alla logica dell’annuncio-senza-seguito (e senza profitto) che sostiene Tesla da anni.

Ma Tesla non è sostenuta solo dagli annunci…

Incentivi

A sostenere Tesla, o meglio, a ridurne le perdite, hanno contribuito in modo determinante gli incentivi. Le compagnie di Musk hanno ricevuto fino al 2015 un totale di più di 4.9 miliardi di dollari in sussidi federali, inclusi 2.5 miliardi di dollari alla sola SolarCity.

Di questi, circa 500 milioni di dollari sono contributi imposti da 10 stati americani che obbligano le case automobilistiche a comprare crediti fiscali dai produttori di auto “verdi”. Ma gli incentivi sono tanti, e diversificati, anche su base geografica. In Nevada, ad esempio, Tesla ha usufruito di sgravi fiscali per 1.1 miliardi di dollari per costruire una fabbrica di batterie che alimenti la sua fabbrica di auto in California, attraverso il taglio della tassa di proprietà per 10 anni e delle tasse sulla vendita di energia elettrica per 20 anni, di fatto operando in un regime tax-free. Non solo: a Tesla è stato anche consentito di vendere in Nevada l’energia elettrica in eccesso, ad un prezzo scontato tra il 10% e il 30%, risparmio che sarà caricato sulle bollette degli utenti sotto la forma di un aumento delle tariffe elettriche.

Al solito, si evidenzia la perversione del sistema dei sussidi verdi:

  • Si finanziano attività in perdita tassando i contribuenti con la giustificazione del beneficio ambientale;
  • Si mettono le altre industrie in condizione di pagare una bolletta elettrica più salata danneggiandone la competitività;
  • Si obbligano i costruttori di auto “convenzionali”, colpevoli di fare profitti, a pagare crediti fiscali a beneficio di Tesla, che i soldi invece li brucia nel camino. Perfetta sintesi della neo-economia liberal ambientalista;
  • Si costringono i produttori “tradizionali” a tirare la cinghia, fino a trasferire le attività produttive altrove (come in Messico) per recuperare, sotto la forma di una manodopera meno cara, le perdite causate dall’imposizione per legge di limiti irraggiungibili sulle emissioni.

Il risultato è che a pagare è come al solito Mr. Johnes, che spende più soldi per la bolletta elettrica, e magari perde il lavoro perché l’industria automobilistica chiude e trasferisce gli impianti qualche km più a sud, in Messico. Mentre a guadagnarci è Musk, con la sua azienda in perdita perenne.

Geniale, vero?

Fatti alternativi

La propaganda politica liberal ha gioco facile a contrapporre Musk a Trump: il paladino dello sviluppo sostenibile contro il villano inquinatore. Le cose, tuttavia, sono molto meno banali di come ama presentarle la stampa mainstream.

Se da una parte, infatti, bisogna concedere a Musk il merito di investire, e di creare posti di lavoro negli USA secondo i dettami del vituperato “Make America Great Again”, è pur vero che proprio il sostegno pubblico ad aziende non redditizie come Tesla costringe gli americani a pagare un prezzo considerevole, come descritto sopra e come sottolineato di continuo dalla nuova Amministrazione americana. Dall’altra parte, l’industria del solare americano (e non solo) è stata piegata proprio dalle azioni di dumping dei cinesi, che sovvenzionano le loro aziende produttrici di pannelli in perdita siderale, mantenendone artificialmente basso il costo di produzione. È un cavallo di battaglia dello stesso Trump: quello della protezione del mercato interno da pratiche commerciali troppo disinvolte da parte di altri paesi.

Ed eccoci quindi di fronte al paradosso di un Musk che specula sulla litania liberal del clima che cambia male per lucrare contributi verdi a danno dei produttori tradizionali. E nel contempo, paga un prezzo mortale alla politica globalista no-border che facilita l’afflusso sui mercati occidentali di prodotti venduti sotto-costo a tutto danno dei produttori locali. La stessa politica no-border, per altro, che facilita la fuga dei produttori di auto tradizionali in Messico per eludere la morsa di legislazioni ambientali draconiane e contrarie ai principi elementari di una economia di mercato.

Conclusione

La storia di Tesla è emblematica: sognare California è bello e facile. Spiattellare slogan ambientalisti e fare promesse mirabolanti è altrettanto facile, specie se non si viene puniti quando quelle promesse, sistematicamente, si disattendono.

Elaborare una politica di sviluppo che coniughi la creazione di posti di lavoro, la difesa di quelli esistenti, la necessità di proteggere l’ambiente e gli interessi industriali nazionali è invece maledettamente difficile. Dividersi tra globalisti e protezionisti, catastrofisti e scettici, liberal e populisti serve a poco: i fondamentalismi, di ogni natura, evidenziano i problemi più di quanto aiutino a trovare soluzioni. Ci vorrebbe buon senso, buona politica, tanta competenza e una bella iniezione di etica globale. Ovvero, ci vorrebbe un miracolo.

In mancanza di miracoli, tocca accontentarsi della presenza dei geni. E se il genio è colui che piú di ogni altro incarna lo spirito del suo tempo, allora Musk è decisamente un genio. E su questo, almeno su questo, possiamo essere davvero tutti d’accordo.