Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 15 Dicembre 2019
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=52045

Dieci anni fa si celebrò a Copenhagen la famigerata COP 15. Molti considerano questa Conferenza delle Parti come la più grande sconfitta del movimento ecologista ed ambientalista che ruota intorno al cambiamento climatico. Secondo alcuni osservatori essa ha rallentato per anni l’implementazione di una serie di misure, in grado di mitigare la crisi climatica attuale. Secondo altri essa ha rappresentato un momento di temporaneo rinsavimento della comunità internazionale. Comunque essa sia valutata, fu un vero e proprio fallimento, in quanto si concluse con un nulla di fatto.

A Madrid si sta rischiando lo stesso drammatico esito. Sono le 23,11 di sabato 14 dicembre e, mio malgrado, mi appresto a scrivere l’ennesimo articolo interlocutorio. Ho sperato per tutto il giorno di poter concludere questa serie di articoli sulla COP 25, ma non è stato possibile. Mi tocca, pertanto, fornire a chi è interessato all’argomento, l’ennesimo elenco di “forse”, “potrebbe”, “eventualmente” e via cantando fino alla nausea.

A Madrid le trattative proseguono da ieri sera. Oggi si è verificata una rottura senza precedenti: i Paesi industrializzati ed alcuni grandi Paesi in via di sviluppo (sembra Cina, India, Brasile e Sud Africa), si sono riuniti nella serata a porte chiuse, escludendo tutti gli altri delegati. Apriti cielo! L’azione è stata considerata uno schiaffo dai Paesi esclusi e dalle Organizzazioni Non Governative, un sopruso ulteriore a danno dei Paesi che più stanno soffrendo a causa del cambiamento climatico. Potrò sembrare cinico, ma credo che la petulante, ossessiva richiesta di ambizione e di soldi, alla fine, ha prodotto questo irrigidimento di alcune delle Parti, condiviso dalla Presidenza della Conferenza.

Per tutta la giornata le ONG ed i Paesi in via di sviluppo, i piccoli Stati insulari e i Paesi più ambiziosi (praticamente l’UE) hanno lamentato gravi carenze ed insufficienze nelle bozze dei documenti che via, via venivano pubblicati.

Il documento relativo alla revisione degli NDCs non è piaciuto perché non prevede alcuna richiesta categorica di impegno ad incrementare gli NDCs, ma solo un banale invito. Non è con questo tono che si riuscirà ad imporre decisioni draconiane ai grandi emettitori internazionali, ovvero Cina, Stati Uniti ed India. Il meccanismo delle perdite e dei danni (meglio conosciuto come “loss & damage”) non è stato implementato, per cui i famigerati 100 miliardi di dollari annui da trasferire ai Paesi in via di sviluppo, sono restati una vaga promessa. Chi più di ogni altro si è opposto a definire in maniera più stringente le regole dei trasferimenti, sono stati gli USA, ma gli Stati Europei non sono stati da meno. Il motivo è molto semplice. Accettare le richieste dei Paesi in via di sviluppo, equivaleva ad ammettere una responsabilità oggettiva, nell’aver procurato danni a questi Paesi. Solo un folle può accettare una cosa del genere senza adeguate contropartite e, difatti, nulla si è concluso.

Da tutti i principali documenti è sparito ogni riferimento al rispetto dei diritti umani ed alla parità di genere nell’attuazione delle misure di mitigazione. Qualcosa è scritto nei preamboli, ma conta poco. I popoli indigeni erano i principali sostenitori dell’esplicito riferimento al rispetto dei diritti umani, in quanto sono sempre stati loro a pagare il prezzo più alto per l’attuazione delle misure di mitigazione. La realizzazione di un bacino idroelettrico comporta, infatti, la necessità di abbandonare le aree allagate. E poiché questi bacini tendono ad essere realizzati in aree remote, si capisce che chi ne paga le conseguenze sono proprio gli indigeni.

Molte sono le accuse di incapacità negoziale rivolta alla Presidenza cilena della COP. Secondo alcuni osservatori essa si è fatta “distrarre” dalle lunghe trattative tecniche sui meccanismi dei mercati del carbonio (paragrafi 2 e 4 dell’art. 6 dell’Accordo di Parigi) ed ha perso di vista gli aspetti più squisitamente politici della Conferenza, giungendo alla fine delle trattative, senza nulla di importante: niente fondi per i meccanismi di compensazione, niente ambizioni e niente diritti umani e parità di genere. Un accordo privo di risultati concreti su questi punti, è inaccettabile per tutto il mondo che ruota intorno alle Conferenze delle Parti ed alle tematiche del cambiamento climatico, anzi emergenza climatica. Il contrasto al cambiamento climatico deve essere, infatti, equo, giusto e solidale. Praticamente agli antipodi dei documenti in discussione alla COP 25. La cosa buffa è che tutte queste cose erano previste in tutti i documenti varati in occasione delle precedenti Conferenze.

E veniamo, infine, ai famigerati mercati del carbonio. Quello previsto dal paragrafo 2 dell’art. 6, è stato definito quasi completamente. Prevede la possibilità di scambio di quote di carbonio tra i singoli Paesi (ITMOs), ma il trasferimento dei proventi ai Paesi in via di sviluppo non è automatico, bensì affidato al buon cuore dei contraenti: diciamo che nulla del misero 2% auspicato, ma non imposto nel documento, andrà ai Paesi in via di sviluppo. I partecipanti al mercato, infine, sono “fortemente incoraggiati” a ridurre le emissioni di un ulteriore 2% (rispetto alle unità scambiate). Nessun cenno ai diritti umani, ma solo un vago invito a non arrecare danni sociali ed ambientali. Chiacchiere che, però, consentono di fare soldi sul commercio del carbonio. E questo basta, i diritti possono aspettare.

Per quel che riguarda il paragrafo 4 dell’art. 6, diverse sono ancora le opzioni e le parentesi quadre. Nulla di definitivo si può ancora dire al riguardo. Secondo qualche osservatore il Brasile l’avrebbe spuntata: è possibile il doppio conteggio, contabilizzare, cioè, due volte le quote di carbonio contrattate: una per il Paese cedente ed una per quello acquirente. Secondo i delegati brasiliani la foresta amazzonica è troppo preziosa per essere svenduta ai Paesi emettitori. Dovrebbe essere possibile, inoltre, utilizzare le unità di carbonio calcolate secondo il Protocollo di Kyoto e maturate fino al 2016, ma su questo c’è forte contrasto. Tale utilizzo, infine, dovrebbe essere consentito a Cina, India e pochi altri. Non all’Australia, però. Un casino, in altre parole (non so se si può scrivere, ma non mi viene nessun’altra parola per descrivere ciò che sta succedendo a Madrid in questi minuti). Se si apre qualche social su cui la COP è seguita in diretta, gli epiteti sono ben più pesanti. 🙂

Questi risultati della trattativa sono bollati da molti osservatori come la dichiarazione di morte cerebrale dell’Accordo di Parigi. Essi minerebbero, infatti, l’integrità ambientale stabilita nella COP 21 perché non produrrebbero un’effettiva riduzione delle emissioni assolute di diossido di carbonio, ma consentirebbero il rispetto degli obiettivi nazionali volontari. Una presa per i fondelli, insomma.

Coloro che per dovere, passione, curiosità stanno seguendo la COP 25, sono esasperati: dalla carenza di ambizione, di risultati concreti, dallo scollamento tra richieste di scienziati e società civile e dal caos totale in cui versa la Conferenza. Sembra che i delegati siano in preda ad una dissociazione completa: entrano nella sala della plenaria, ne escono subito dopo per incontrarsi nei corridoi, ritornano nella sala della plenaria, ne riescono e via di questo passo. Del resto cosa si può chiedere a delle persone estenuate da 14 giorni di trattative infruttuose, ma faticosissime? Credo che hanno solo voglia di andarsi a fare una doccia ed una dormita e non so dargli torto.

A mezzanotte inizia finalmente la plenaria. E’ finita? Neanche per sogno! Siamo ad un passo dall’accordo, dice la Presidente. Gli incontri continueranno per tutta la notte allo scopo di raggiungere le ambizioni che tutti si aspettano ed i risultati migliori. Nessuno ci crede, ma tutti abbozzano. Il rappresentante dei 44 Paesi in via di sviluppo escluso dalle trattative, insorge e chiede chiarimenti alla Presidente che cerca di tranquillizzarlo. Basta non ne posso più, che vadano tutti al diavolo. Buonanotte.