Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 7 Agosto 2018
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=48991

Vi sono dei periodi storici in cui gli scienziati ed i mezzi di comunicazione di massa si concentrano su argomenti che fino a quel momento avevano trascurato. E’ quello che sta accadendo con le correnti termoaline e, in modo particolare, con la Corrente del Golfo. Lo scorso mese di aprile ho avuto modo di occuparmi di essa commentando due articoli scientifici che discutevano il rallentamento della Corrente del Golfo e le sue cause (qui su CM). Solo pochi giorni fa G. Guidi ha pubblicato un post, segnalando un altro articolo che indagava gli stessi temi e giungeva alla conclusione che le variazioni di velocità della Corrente del Golfo potessero avere cause naturali (qui su CM).

Due giorni fa su Nature Communications è stato pubblicato l’articolo a firma di Hong Chin Ng ed altri colleghi (da ora Ng et al., 2018).

Coherent deglacial changes in western Atlantic Ocean circulation

Come ormai ben sanno i lettori di CM, la circolazione termoalina distribuisce su tutto il globo terrestre il calore che gli oceani immagazzinano nella fascia equatoriale. Con il termine AMOC (acronimo che sta per Atlantic Meridional Overturning Circulation) si intende il complesso sistema di correnti marine che caratterizza l’Oceano Atlantico e la cui componente più famosa è proprio la Corrente del Golfo. Appare ovvio che variazioni della velocità dell’AMOC, siano capaci di influire profondamente sulle condizioni climatiche di tutto l’emisfero nord, per cui non stupisce che gli scienziati siano alla continua ricerca delle cause che determinano queste variazioni. Qualche anno fa L. Mariani ha dedicato a questa tematica un  post su CM che illustra sinteticamente il funzionamento di AMOC e la sua influenza su eventi climatici improvvisi come gli eventi di Heinrich o quelli di Dansgaard-Oeschger.

Nel post dello scorso aprile ho cercato di confrontare due tesi contrapposte: una attribuiva il rallentamento della Corrente del Golfo a cause naturali, l’altra lo imputava a cause antropiche. In quell’occasione feci notare che il lavoro che attribuiva le variazioni di velocità della Corrente del Golfo a cause naturali, era viziato dal fatto che le misurazioni riguardavano sedimenti trasportati dal ramo freddo della corrente a nord di Capo Hatteras, per cui potevano rendere conto di eventi locali che, quindi, non riguardavano l’intero sistema che definiamo AMOC.

Ng et al., 2018 sembra essere riuscito a eliminare questo problema, in quanto basa i suoi risultati su un record di tredici campioni prelevati da svariati siti oceanici. In linea di principio lo studio cerca di mettere in relazione la velocità dell’AMOC o, per essere più precisi, la sua capacità di trasportare calore, con bruschi cambiamenti climatici ben documentati. I ricercatori hanno individuato tre eventi che hanno caratterizzato il periodo temporale compreso tra l’ultima glaciazione e l’Olocene: Heinrich Stadial 1 (~ 19-15 mila anni fa), Bølling-Allerød (~ 15-13 mila anni fa) e Younger Dryas (~ 13-11 mila anni fa). Successivamente hanno esaminato tredici carote di sedimenti di cui si conosce la cronologia stratigrafica. Nei sedimenti presi in esame, gli studiosi hanno individuato il rapporto tra le concentrazioni di due radionuclidi: il 231Pa ed il 230Th.  Questi due isotopi sono presenti anche negli oceani odierni secondo rapporti ben precisi, determinati da diversi fattori, tra cui la velocità delle correnti oceaniche. Secondo Ng et al., 2018 il rapporto isotopico 231Pa/230Th costituisce, pertanto, un dato di prossimità efficace per individuare la velocità delle correnti oceaniche, in corrispondenza dei cambiamenti climatici presi in considerazione. Nell’immagine che segue, tratta dalla fig. 1) di  Ng et al., 2018, possiamo vedere i siti da cui sono stati estratti i tredici campioni.

Fig. 1: I cerchi ed i quadrati rappresentano i punti di prelievo dei campioni, le croci rappresentano i punti di prelievo dei campioni su cui sono state effettuate analisi granulometriche per individuare grani di diametro inferiore ai 63 micrometri.

La metodologia si basa sul fatto che i radionuclidi presi in esame, vengono prodotti secondo un rapporto ben preciso (circa 0,093). A causa dei diversi tempi di permanenza in acqua (50-200 anni per 231Pa contro 10-40 anni per 230Th), il rapporto tra i due isotopi nei sedimenti è diverso da quello di produzione. I radionuclidi vengono adsorbiti, infatti, dalle particelle trasportate dalle correnti oceaniche profonde e, a causa del diverso tempo di permanenza in acqua dei due isotopi, si verificano degli scambi tra radionuclidi che alterano il rapporto tra di essi. A migliaia di chilometri dal punto di produzione, il rapporto 231Pa /230Th  cambia e rappresenta una “firma” del trasporto laterale e delle vicende che caratterizzano la colonna d’acqua sovrastante il ramo profondo della corrente oceanica. I dati oceanici odierni ci consentono di stabilire una firma isotopica corrispondente allo stato attuale dell’AMOC, valori inferiori o superiori del rapporto 231Pa /230Th , rappresentano un indice di maggiore o minore velocità della corrente oceanica. Valutando il rapporto isotopico nei campioni di sedimenti risalenti a diverse migliaia di anni fa, siamo in grado di stimare la velocità delle paleocorrenti. I ricercatori hanno fatto ricorso, ovviamente, a metodi di calibrazione che sono illustrati nell’articolo liberamente accessibile e che in questa sede tralascio di descrivere, per non appesantire eccessivamente la discussione.

Nell’immagine che segue (tratta dalla fig. 2 di Ng et al., 2018), sono riportati i valori del rapporto 231Pa /230Th negli ultimi venticinquemila anni, determinato per i vari campioni studiati.

Fig. 2): Nel riquadro a) i dati relativi all’Atlantico occidentale; nel riquadro b) i dati relativi alle medie latitudini dell’Atlantico orientale e nel riquadro c) i dati relativi ai sedimenti dell’Atlantico equatoriale orientale. Le bande colorate (rosso, verde e blu) rappresentano le categorie alto, medio e basso rapporto isotopico ed i numeri in parentesi i campioni di cui alla precedente figura 1).

Sulla base dei risultati ottenuti e condensati nella figura 2, Ng et al., 2018 hanno potuto concludere che il rapporto 231Pa /230Th,  assume valori diversi per l’Atlantico occidentale e quello orientale: ad alti valori del rapporto 231Pa /230Th  nell’Atlantico occidentale, corrispondono valori più bassi del rapporto 231Pa /230Th  nell’Atlantico orientale e viceversa. Soffermiamoci ora su quanto accade nell’Atlantico occidentale. Durante l’ultimo massimo glaciale (LGM) i valori del rapporto 231Pa /230Th nell’Atlantico occidentale rientravano nella fascia media, successivamente, con l’avvento dello Heinrich Stadial 1, essi sono aumentati fino a portarsi  a valori simili a quelli di produzione, per ridiscendere in corrispondenza dell’evento caldo di  Bølling-Allerød. Durante lo Younger Dryas i dati sono un po’ contrastanti, ma con l’avvento dell’Olocene, i valori del rapporto  231Pa /230Th  si sono definitivamente ridotti ed hanno assunto i valori attuali con oscillazioni  di periodo millenario o multimillenario. Nell’Atlantico orientale l’andamento è qualitativamente simile, ma cambiano i valori del rapporto tra i radionuclidi.

Questi sono i dati. Dobbiamo cercare, adesso, di comprendere le implicazioni che questi dati comportano da un punto di vista climatico. La prima cosa che salta agli occhi è che gli eventi climatici improvvisi sono correlati alla velocità dell’AMOC a livello globale. Premesso che correlazione non è causalità, possiamo presumere, però, che variazioni nella velocità dell’AMOC determinano i cambiamenti climatici in quanto tali variazioni di velocità, a lume di logica, comportano variazioni della quantità di calore che AMOC veicola alle alte latitudini.

Ciò che è ancora più interessante è che, nel caso di Heinrich Stadial 1, il momento in cui inizia ad aumentare il rapporto 231Pa /230Th, non coincide con il rilascio dei detriti glaciali provenienti dalla calotta della Laurentide (come si evince dai confronti con le serie granulometriche), ma con i detriti fluviali di origine euro-asiatica. In altre parole la fusione delle calotte glaciali terrestri ad oriente del bacino atlantico, avrebbe riversato nel Golfo di Biscaglia acque dolci che avrebbero determinato un primo rallentamento dell’AMOC. Questo rallentamento determinò un accumulo di acque calde sub superficiali nella parte nord orientale dell’Atlantico che innescò, successivamente, il distacco di quelle flotte di iceberg che hanno generato i depositi di detriti che furono studiati verso la fine degli anni ’80 del secolo scorso da Heinrich e che caratterizzano quegli eventi climatici che da lui presero il nome. Detto in altri termini, gli eventi di Heinrich (almeno quello stadiale 1) sono caratterizzati da due fasi ognuna delle quali è contraddistinta da cause diverse che hanno influenzato, però, la circolazione termoalina nella sua globalità.

Con la fine dello stadiale di Heinrich si verificò una diminuzione del rapporto 231Pa /230Th che coincide con il riscaldamento conosciuto come evento di Bølling-Allerød. Secondo Ng et al., 2018, questo evento coincise con un aumento della velocità di AMOC come dimostra la drastica riduzione del rapporto 231Pa /230Th. Stranamente, però, questo periodo climatico è caratterizzato da una scarsa presenza di detriti fluviali e glaciali: è come se i ghiacci non si sciogliessero. Si tratta di un controsenso in quanto ad un periodo caldo, non corrisponde fusione glaciale. Del resto l’andamento del livello del mare ed altri dati di prossimità, dimostrano che in quel periodo geologico i ghiacciai si fusero, per il rinvigorimento dell’AMOC, non può essere considerata un effetto della mancata fusione dei ghiacci.  E con questo siamo giunti a toccare il tallone di Achille di questo studio. Perché AMOC è diventata più forte? Ng et al., 2018 attribuisce il rinvigorimento di AMOC ad un aumento della CO2 atmosferica ed a giustificazione di tale tesi invoca un recente studio (Zhang et al., 2017) che sulla base di elaborazioni modellistiche, sembra aver individuato nella variazione della concentrazione di diossido di carbonio atmosferico,  la causa delle variazioni di velocità di AMOC. Personalmente non sono molto d’accordo, mi sembra più un modo per aggirare un ostacolo che per risolvere il problema. Che esiste ed è grosso. Senza questa spiegazione, infatti, dovremmo dedurre che il maggiore tasso di fusione dei ghiacci non rappresenta una causa del rallentamento dell’AMOC, ma una conseguenza delle variazioni di velocità della circolazione termoalina e dovremmo buttare alle ortiche tutto quanto detto a proposito del precedente stadiale di Heinrich.

Passando al successivo evento climatico, noto come Younger Dryas, le cose si fanno ancora più complicate: le serie di dati relative al rapporto 231Pa /230Th non sono univoche, ma presentano valori che variano in una forchetta estremamente alta. Sappiamo che questo è stato un periodo freddo, per cui ci saremmo aspettati alti valori del rapporto 231Pa /230Th. Non è così per cui mi viene il dubbio che questo metodo di stima della velocità di AMOC presenta qualche criticità che deve essere ancora risolta. Mi convince poco la spiegazione fornita da Ng et al., 2018: durante l’evento dello Younger Dryas il clima era molto più variabile e, quindi, le calotte glaciali molto più instabili ed AMOC più sensibile a piccole variazioni climatiche.

Ho riflettuto molto su questo articolo che non è di facile comprensione e, probabilmente, non sono riuscito a cogliere tutte le sfumature dei ragionamenti degli autori, ma alla fine sono restato piuttosto perplesso. Inizialmente mi ha entusiasmato l’idea che potesse essere stato individuato un metodo in grado di collegare tutta l’AMOC ai cambiamenti climatici globali, ma poi questo entusiasmo è calato man mano che individuavo delle criticità nelle scelte fatte da Ng e colleghi. Essi erano partiti, per esempio, dall’esame di oltre trenta campioni, ma alla fine hanno riportato i risultati relativi a quei tredici che manifestavano maggiore coerenza. Le motivazioni addotte per giustificare la scelta,  potrebbero anche essere condivisibili, ma la cosa rappresenta un punto di debolezza. A questo, infine, si devono aggiungere le perplessità che ho evidenziato nelle righe precedenti. Nel complesso un lavoro molto impegnativo, ma che non riesce a risolvere tutti i problemi sul piatto: funziona alla grande per l’evento Heinrich Stadial 1, ma questo dipende, forse, dalle operazioni di sintonizzazione delle serie di dati. Alla fine bisogna concludere che il legame tra clima ed AMOC è ancora largamente da scoprire, per cui continueremo ancora a lungo (spero non tanto) a chiederci se sia AMOC a determinare il clima o viceversa.