Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 16 Giugno 2016
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=41591
E’ una notizia che mi era passata davanti agli occhi un paio di mesi fa ma, complice il quotidiano bombardamento di disastri annunciati, non avevo prestato la giusta attenzione. Dunque, ancora una volta c’è di mezzo El Niño, che ne fa più di Carlo in Francia a quanto pare. Infatti, la ‘migrazione di massa’ verso est delle acque molto calde del settore occidentale del Pacifico equatoriale, appunto il carta d’identità del Bambinello, ha avuto impatto anche sulla Barriera corallina australiana. L’aumento della temperatura dell’acqua ha provocato, come sempre in questi casi, un esteso coral bleaching (sbiancamento), esacerbato dalla forte intensità dell’evento in modo molto simile alla fase di El Niño del 1997-1998.
Immaginabile (e giusto) che in molti si siano dati da fare per capire quale fosse l’entità del danno, per ragioni ambientali, ecologiche e, perché no, anche di attrattiva turistica. Accade così che la Jhon Cook University, lestamente, abbia mandato in avanscoperta i suoi ricercatori con l’aiuto di due autorevoli istituzioni che si occupano di corallo e dintorni, vedendoli tornare, così recitavano i media, con il cuore straziato. Una tragedia biblica, riportavano, il 93% della Grande Barriera Corallina è perso per sempre. Roba che neanche il dentifricio avrebbe potuto far peggio. Colpa di El Niño ma soprattutto colpa del clima che cambia.
Salta fuori poi un ricercatore della stessa università, tale Paul Ridd, che accusa le due istituzioni e la sua stessa università di aver fatto uso di fotografie risalenti a vecchi report per condire meglio la tragedia, senza aver cura di investigare se le immagini fossero paragonabili, oppure se, in assenza di informazioni scientificamente solide, l’uso delle stesse non fosse un caso di cattiva condotta scientifica. Che è una parafrasi orrenda, lo so, ma nel mondo della ricerca è qualcosa di cui nessuno vorrebbe mai essere accusato.
Invece di chiedere scusa e, magari, anche di esortare i ricercatori a rendere più solide le loro affermazioni, l’università ha pensato bene di accusare Ridd di non aver agito secondo una non meglio specificata etica collegiale – noi diremmo di aver cantato fuori dal coro – minacciandolo di espulsione se avesse ripetuto il suo atteggiamento. Il tutto, se volete approfondire, in un articolo del Daily Caller.
Ma, e i coralli? Eh, beh, qui sta il succo della storia, altrimenti declassabile al livello di isteria tra accademici in cerca di visibilità. I coralli, dicevamo, per la stessa ammissione del capo dell’Autorità nazionale del Parco Marino della Great Reef Barrier, ente governativo che tra l’altro aveva partecipato alla ricerca, sono tutt’altro che devastati. La percentuale di barriera colpita dallo sbiancamento si aggira attorno al 22% e, nei prossimi mesi, rassicura, il 75% della barriera avrà completamente recuperato. Le raffiche di numeri catastrofici, a quanto pare, avevano lo scopo di confezionare un messaggio ben diverso dalla realtà. Non è difficile immaginare che sia accaduta la stessa cosa per le immagini. Incurante del pericolo di essere colpito anche lui dall’anatema dello scarso spirito collegiale, ha detto così:
Non so se sia trattato di un deliberato gioco di prestigio o di mancanza di cognizione geografica, ma ha certamente raggiunto gli scopi di quelli che li avevano mandati in giro.
Bella figura…
Ah, volete sapere in che salsa ha girato la notizia qui da noi? Presto fatto, ecco il lancio dell’ANS(i)A del 20 aprile 2016: Sos Grande barriera corallina, 93% colpita da sbiancamento e, naturalmente, a seguire la Repubblica, Rinnovabili.it, Le Scienze, tutti su questa bella googolata, tutti ansiosi di conoscere il destino corallino dalle parole di Terry Hughes, biologo che ha guidato la task force di ricercatori. E ci finisce dentro anche il National Geographic, con un pezzo molto articolato ma non meno catastrofico degli altri, dal quale però apprendiamo che Hughes non ha partecipato allo studio, ma si è adoperato per reperire i finanziamenti. E non lo vuoi ringraziare con qualche immagine ad effetto poi? Del resto ti ha mandato in giro…
Riporto per completezza anche il Commento di Donato:
Le università australiane sono in prima linea nella “lotta” al cambiamento climatico e non perdono un’occasione, dico una, per urlare al disastro climatico prossimo venturo. Non per niente Skeptical Science è basato da quelle parti. Non per niente Lewandowsky ed il suo famigerato “97% di climatologi favorevoli all’AGW” o l’altrettanto famigerato articolo che paragona gli scettici ai negazionisti dell’olocausto, ai conservatori ed agli anti-scienza per antonomasia, viene da quegli ambienti accademici. CNon per niente da quegli ambienti proviene lo scienziato a capo della “nave dei folli” partita per raggiungere l’Antartide e rimasta bloccata nella banchisa inaspettatamente estesa.
Non stupisce, pertanto, che buona parte delle leggende metropolitane sul clima che cambia e cambia male nasce e si sviluppa in Australia: sono poco più di venti milioni ma fanno più casino della restante parte del genere umano.
Ciao, Donato.