Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 13 Giugno 2020
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=52976

Europa, giugno, praticamente al solstizio, estate latitante. Che succede? Niente di che, semplicemente, quest’anno, ancora non si sono viste configurazioni di blocco – leggi modalità della circolazione che facilitano la persistenza di regimi di alta o bassa pressione – che abbiano riversato i loro effetti positivi sull’Europa centrale.

A dire il vero in questi giorni un blocco c’è, ed è anche piuttosto robusto, però è sull’Europa settentrionale, Scandinavia, Baltico e Mare di Barents. Lì sì è arrivata l’estate, e sono arrivate anche temperature piuttosto alte per il periodo, per la gioia di commentatori sempre alla ricerca di qualcosa di eccezionale anche quando non lo è. Però, con l’alta pressione ben salda lassù, per il resto d’Europa sono dolori o, meglio, sono piogge, temporali e temperature sotto media.

Quindi, se il tempo lo fa sicuramente l’assetto della circolazione, il maltempo e il solleone duraturi lo fanno sempre le configurazioni di blocco, quelle fasi cioè in cui l’ampiezza delle onde planetarie è tale da mantenere la persistenza di un determinato regime atmosferico su di una determinata porzione di territorio. Da questa persistenza possono quindi derivare condizioni estreme. D’estate, un blocco con l’alta pressione sull’Europa centrale può portare onde di calore, viceversa d’inverno un blocco sulla parte nord del continente può causare ondate di freddo verso sud.

Negli ultimi tempi si è discusso molto circa la possibilità che il riscaldamento del pianeta – in corso qualche secolo – possa avere effetti anche su persistenza, dimensioni e frequenza di occorrenza delle configurazioni di blocco. La ricerca non ha portato evidenze di trend particolari per il passato recente, mentre gli scenari climatici indicano in generale un possibile trend negativo per la frequenza di occorrenza, ma positivo per l’ampiezza. Come appena detto, di questo non c’è riscontro nelle osservazioni, anche perché definire esattamente cos’è un blocco in termini fisici non è affatto semplice. Ad ogni modo, alla domanda “Il climate change sta causando blocchi più frequenti?”, la risposta è attualmente no.

Tutto questo e molto altro, è ben spiegato in un interessante articolo che mi è capitato per le mani via twitter:

Ve ne consiglio la lettura, anche se, quando si arriva alla discussione sulle proiezioni è necessario trattenere il respiro (anzi, il sospiro), perché inevitabilmente la letteratura che si riporta è riferita allo scenario climatico RCP8.5, che ormai sappiamo essere buono solo per il secchio, a meno che non venga utilizzato per quello che è invece che per fare previsioni, ossia una sorta di stress test estremo che non ha nessuna probabilità di occorrenza, né alcuna coerenza con la realtà.

E questo, invece , è proprio quello che ha fatto un altro gruppo di ricercatori, dedicando però l’attenzione ad un altro spauracchio dell’AGW, l’aumento del livello dei mari e la presunta (non)resilienza degli atolli del Pacifico. Lo stress test ha dimostrato che le isole della barriera corallina, piuttosto che scomparire miseramente tra i flutti, si adattano. Quando il livello del mare cresce i coralli salgono e il deposito dei sedimenti contribuisce a mantenere quei piccoli lembi di terra emersa appunto tale.

Di questo, diversamente da quanto detto invece per le configurazioni di blocco, dove non c’è accordo tra le proiezioni e le osservazioni, c’è invece una conferma nella realtà dei fatti. Alcuni atolli del Pacifico, buona parte di quelli messi sotto osservazione, sono effettivamente cresciuti di dimensioni sotto l’assalto dell’aumento del livello del mare.

Leggere per credere.

Buon we.