Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 11 Febbraio 2016
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=40522

longyearbyen

Lo che potrà sembrare un paradosso ma, come spesso accade, quando si parla di ricerca l’esperienza sul campo da’ spesso risultati contro-intuitivi. Per l’Artico o, meglio, per gli agglomerati urbani delle alte latitudini, parlare di effetto UHI quando il sole non c’è o è talmente basso da dare solo penombra può sembrare strano. Invece, in seguito ad una campagna di misura condotta nello stile “street view” di Google, cioè mettendo dei sensori su di un’auto e facendo misura in vari punti degli agglomerati, è saltato fuori che dentro le città la temperatura è parecchio più alta che nelle zone limitrofe.

All’origine della differenza c’è sempre la diversa capacità termica dei materiali edili rispetto alla nuda terra, ma il calore da questi ritenuto e successivamente rilasciato non viene dal Sole, quanto piuttosto dai sistemi di riscaldamento, cioè dall’interno.

Mapping urban heat islands of arctic cities using combined data on field measurements and satellite images based on the example of the city of Apatity (Murmansk Oblast)

Una differenza sorprendente, che arriva fino a 3,2°C nella città di Apatity, che vanta la bellezza di 59.000 abitanti, quindi non è esattamente un villaggio. La domanda, anzi, le domande sono: Quante stazioni ci sono alle alte latitudini? Quante di queste sono affette da questo condizionamento? Risposta, le stazioni sono davvero poche, ma molte probabilmente soffrono di questo problema, perché se gestire la logistica dei sensori è normalmente difficile, in zone inospitali come quelle è quasi impossibile, per cui meglio avere i sensori a portata di mano, dove c’è un minimo di civiltà.

Ora, chi si occupa di acquisire e ordinare in dataset le temperature provenienti dalle stazioni al fine di comporre i dataset globali, per ovviare al deficit di informazioni causato dalla scarsa densità di informazioni alle alte latitudini, può escludere la zona artica dal computo, come fanno gli inglesi dell’Hadley Center, oppure può tentare delle tecniche di interpolazione alquanto spericolate come fanno quelli del GISS della NASA, dove il passo di griglia usato per l’omogeneizzazione dei dati arriva anche a 1200 Km.

Altra domanda: quanto si propaga nel dataset e nella determinazione della temperatura dell’area artica questo condizionamento? Non sono in grado di rispondere, magari chi ha condotto questa ricerca lo farà nel prossimo futuro. Al riguardo però vorrei ricordare che le alte latitudini boreali, che sebbene poco sono comunque abitate, sono quelle dove il trend di aumento delle temperature globali è più significativo, cioè dove si “legge” meglio il global warming. Al contrario, le alte latitudini australi (l’Antartide) mostrano dati molto più controversi e comunque non di generale aumento.

Verrebbe da dire che, ancora una volta, almeno una parte del trend di aumento delle temperature è sì di origine antropica, ma viene dal basso ed ha caratteristiche molto locali piuttosto che venire dall’alto ed essere globale.