Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 04 Ottobre 2016
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=42429

 

Su queste pagine siamo abituati a leggere di guerre del clima con riferimento alle scaramucce dialettiche tra scettici e sostenitori dell’ipotesi del clima che cambia per ragioni esclusivamente antropiche, legate alle emissioni di gas climalteranti ed allo stravolgimento dell’ambiente. Oggi vorrei occuparmi di altre guerre legate al clima o, per essere più preciso, di guerre che vari analisti attribuiscono al cambiamento climatico. Lo spunto è stato offerto da un articolo pubblicato sul numero di agosto della rivista “Le Scienze”

Prevenire le guerre del clima

di Andrew Holland

L’autore non è uno dei soliti giornalisti pronto a saltare sul carro del disastro climatico incombente in cerca di maggior audience, ma un analista del think tank indipendente American Security Project che, in tale veste, ha testimoniato al Congresso USA sull’Artico. Diciamo che è uno che dal 2007 o giù di lì, si occupa professionalmente di studiare il legame tra cambiamento climatico e sicurezza. Un esperto con tanto di patente.

Inizio a leggere l’articolo e faccio subito un salto sulla sedia: “… le forze armate statunitensi … si preparano ad un mondo più caldo che già altera gli equilibri geopolitici e potrebbe provocare conflitti armati.” E’ buffo pensare che mentre noi ci arrabattiamo a cercare di capire cosa farà il clima domani, le forze armate della maggiore potenza mondiale si stanno già preparando alle future guerre provocate dal clima che cambia e cambia male. I generali USA hanno già fatto le proprie scelte e del dibattito in corso non si interessano più di tanto: il clima sta cambiando, il mondo sarà più caldo ed è necessario armarsi per contrastarne gli effetti. Andiamo avanti, però, con ordine.

I rischi maggiori per la stabilità mondiale devono essere ricercati, stando a quanto scrive Holland,

  • nel livello del mare che sale e potrebbe rendere necessario trasferire altrove le basi navali e le installazioni che in futuro potrebbero essere sommerse o rese meno sicure;
  • nella maggiore frequenza degli eventi estremi (siccità, uragani, tifoni e via cantando) che renderà più vulnerabili le già fragili democrazie nei Paesi in via di sviluppo;
  • nei conflitti armati a scala regionale o globale innescati dalle conseguenze del cambiamento climatico.

Sul primo punto dell’articolo di Holland ho molti dubbi e perplessità in quanto l’aumento del livello del mare non mi sembra tanto veloce da determinare conseguenze catastrofiche per le basi navali e le infrastrutture militari. Trattandosi, però, di una variazione che sicuramente è in atto potrebbe anche darsi che un aumento sia in grado di determinare problemi di tipo logistico: non conosco la struttura delle basi USA per poter esprimere un giudizio informato, per cui do per scontato che generali ed ammiragli conoscano bene i limiti delle infrastrutture logistiche della difesa USA. Concordo con l’autore sul fatto che le conseguenze dirette dell’aumento del livello del mare sulla struttura della difesa statunitense e non solo, sono il male minore: basta spostarle in punti meno vulnerabili ed il gioco è fatto.

Dove, però, comincio a non essere d’accordo con Holland è nell’analisi delle conseguenze sociali, politiche e geopolitiche dei cambiamenti climatici in atto. Egli ritiene che già oggi si possano vedere in varie parti del mondo le conseguenze del cambiamento climatico sugli assetti geopolitici globali e, a titolo esemplificativo, descrive alcuni conflitti in atto che, a suo dire, sono stati provocati dalle conseguenze del cambiamento climatico. Esordisce, manco a dirlo, con il conflitto siriano e ne attribuisce le cause alla siccità che a cavallo del 2010 funestò la Siria. Essa sarebbe stata più lunga e dura a causa del cambiamento climatico in atto e,  in seguito a ciò, gli agricoltori siriani avrebbero abbandonato le aree rurali per stabilirsi nei centri urbani incubando un forte malcontento nei riguardi del governo che non avrebbe tenuto in debito conto le loro legittime rimostranze circa la scarsità del raccolto e la perdita del bestiame. Questo malcontento sarebbe stata la causa scatenante delle rivolte che inaugurarono la “rivoluzione” siriana le cui conseguenze vediamo fino ad oggi. Ovviamente le cause per così dire climatiche, si sovrapposero a quelle più schiettamente politiche e/o ideologiche che animarono tutte le cosiddette “primavere arabe”.

Io ho studiato piuttosto a fondo la situazione siriana nel corso dell’ultimo anno e non concordo affatto circa l’analisi di Holland in quanto il clima che cambia con la guerra civile siriana non ha nulla, ma proprio nulla a che fare. Incolpare il cambiamento climatico della guerra siriana significa non aver capito nulla di ciò che sta accadendo in Siria.

Luigi Mariani pubblicò circa un anno fa, qui su CM, un articolo in cui dimostrava, dati alla mano, che la siccità siriana cui fa riferimento Holland non fu né eccezionale, né senza precedenti. Già questo dovrebbe sgomberare il campo dagli equivoci, ma chi si prende la briga di studiarsi un po’ (solo un po’, mica tanto) la situazione dello scacchiere mediorientale prima dello scoppio della crisi siriana, si rende conto che le cause della guerra siriana sono ben altre. Esse sono di natura economica e geopolitica, certamente non climatica. La Siria ha la sfortuna di trovarsi in un posto scomodo: è proprio in mezzo ad un corridoio che collega i giacimenti di gas e petrolio della penisola arabica con i principali mercati, ovvero i Paesi della sponda nord del Mediterraneo. La Siria ha un governo che non è mai stato ben visto dalle potenze occidentali e dai loro alleati arabi in quanto ha orbitato sempre nella sfera di influenza dell’Unione Sovietica prima, della Russia e dell’Iran ora. Con l’avvento al potere di Erdogan e del suo partito in Turchia, le cose sono peggiorate in quanto la Turchia ha cercato di estendere la sua influenza sulla parte settentrionale della Siria abitata da genti turcomanne. La Siria si è trovata ad essere il classico vaso di coccio tra i vasi di ferro e si è rotta in quanto sfruttando la frammentazione etnica, culturale e religiosa che la contraddistingue, è stato facile per le potenze regionali alimentare conflitti interni annosi e mai sopiti di natura etnica e religiosa che sono deflagrati in quello scempio che è sotto gli occhi di tutti. Questa è, in estrema e rozza sintesi, la genesi della guerra civile siriana altro che la religione o il clima o le legittime aspirazioni alla democrazia del popolo siriano. Si badi bene il governo siriano non è un’associazione di santi, ha grandissime responsabilità sociali, economiche e politiche, ma le ragioni profonde della guerra siriana devono essere cercate nelle cancellerie occidentali, russe, iraniane, turche, israeliane e dei Paesi arabi (Arabia Saudita ed alleati del Golfo Arabico in testa). In Siria si sta combattendo una guerra per procura tra il blocco occidentale e quello che fa capo alla Russia utilizzando il sangue e la carne dei siriani. Punto. Altro che clima.

Con questa premessa l’articolo acquista una luce tutta particolare. Si tratta del solito pistolotto teso a consolidare il paradigma del cambiamento climatico di origine antropica in salsa militare, stavolta. L’autore prosegue la sua analisi circa l’influenza del clima sulla destabilizzazione sociale ed economica del mondo portando altri esempi. Egli analizza alcuni scacchieri in cui operano le forze armate USA ed in cui il riscaldamento globale potrebbe agire da “acceleratore di instabilità” o di “moltiplicatore di minacce” per usare i termini specifici utilizzati nelle pubblicazioni degli Stati Maggiori USA.

Egli analizza in particolare l’area Pacifica, quella Africana e l’Artico. Nell’area Pacifica il principale pericolo che le forze armate americane devono prepararsi ad affrontare, è l’aumento della frequenza degli eventi estremi e la situazione dei piccoli stati insulari a rischio di essere sommersi. Il pericolo maggiore sarebbe costituito, però, dagli uragani in quanto essi sconvolgerebbero le fragili strutture socio-economiche di Paesi come le Filippine, l’Indonesia ed il Sud Est Asiatico, esponendoli all’attrazione fatale della Cina che avrebbe gioco facile a soppiantare gli USA nel loro controllo. L’unico vantaggio degli Stati Uniti è che la Cina non fornisce aiuto in occasione di catastrofi naturali per cui è questa la direzione in cui si devono muovere le forze armate USA: soccorrere prontamente ed efficacemente le popolazioni colpite in modo da favorire un atteggiamento “amichevole” verso gli interessi americani. Mi sono chiesto se, prima di elaborare questi piani, qualcuno che conta ha preso visione dei rapporti IPCC che non hanno trovato traccia di aumento nella frequenza di eventi estremi. Secondo me li hanno letti e fin troppo bene, ma il vento politico spira in ben altra direzione, quindi è meglio approfittarne. Holland in proposito non nasconde la propria irritazione per il fatto che negli ultimi anni i fondi destinati a potenziare le capacità di intervento dei militari nell’aiutare le popolazioni colpite dalle catastrofi, sono diminuiti.

Altro scacchiere che crea preoccupazione è l’Africa. Qui il problema principale è la desertificazione e la deforestazione che provocano malnutrizione e tensioni sociali. Da queste tensioni sarebbe nato, per esempio,   il gruppo islamista Boko Haram in Nigeria. Nel futuro queste condizioni favorevoli all’instabilità sociale africana dovrebbero accentuarsi e, quindi, è necessario studiare le migliori strategie per porvi rimedio. Anche su questo punto ho molte perplessità in quanto l’Africa ha sempre subito forti stress climatici sin dalla nascita del genere umano: ci siamo evoluti nell’Africa centrale proprio a causa delle forti pressioni ambientali dovute a violenti cambiamenti climatici di origine prettamente naturale. E’ bene prepararsi per far fronte a simili evenienze, ma non bisogna imputarle al cambiamento climatico di origine antropica in quanto l’area è instabile quasi per definizione.

La terza area di possibile crisi è costituita, secondo Holland, dall’Artico in quanto a causa del rapido scioglimento dei ghiacci artici, ampie zone prima occupate dai ghiacci si aprono alla navigazione ed allo sfruttamento commerciale: il passaggio a nord-ovest è sgombero dai ghiacci per buona parte dell’anno, per esempio. A me non sembra, ma forse leggiamo carte diverse.

Per i militari USA l’Artico è un problema in quanto esso è per buona parte circondato dalle coste russe ed i Russi sono molto più forti degli Americani sotto quasi tutti i punti di vista. La lotta è impari, ma i politici USA non sono pronti ad aprire la borsa per porvi rimedio. A titolo puramente esemplificativo gli Stati Uniti dispongono di due vecchie navi rompighiaccio a fronte di una flotta russa che non ha uguali nel mondo e che conta diversi rompighiaccio a propulsione nucleare di cui una in corso di costruzione. Anche la Cina e l’India evidenziano “appetiti artici” per cui sarebbe necessario un forte impegno politico ed economico per contrastare queste forze ostili. A giudizio dell’autore tale impegno non c’è, per cui le cose si metteranno sicuramente male.

In altri termini lo sforzo delle forze armate statunitensi non si dirige verso il cambiamento climatico, ma verso le possibili conseguenze allo scopo di mitigarne gli effetti. Mi sembra un atteggiamento tutto sommato saggio, ma che convince poco il nostro autore. Egli chiude, infatti, il suo articolo con una vena di malcelato pessimismo. Ci sono voluti anni ai politici (ed agli attivisti, aggiungo io) per convincere i pragmatici militari che la minaccia climatica è una cosa seria ed ora che si sono convinti a prepararsi, si rischia di tornare punto ed a capo se a novembre dovesse vincere le elezioni un candidato repubblicano.

Ed a questo punto tutto diventa chiaro: il problema del clima che cambia e cambia male è soprattutto un problema politico a cui i militari credono poco e su cui si impegnano solo perché i politici che hanno in mano i cordoni della borsa, per ora, vedono un grande pericolo nel cambiamento climatico. Le guerre del clima potrebbero avere vita breve, in altre parole.