Autore: Donato Barone
Data di pubblicazione: 7 Novembre 2018
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=49623

Qualche giorno fa è stato pubblicato un articolo a firma del dr. G. Alimonti ( qui su CM) in cui si parlava di sensibilità climatica all’equilibrio, ovvero della grandezza che rappresenta l’aumento della temperatura media globale della Terra al raddoppio della concentrazione di diossido di carbonio in atmosfera. Nell’articolo e nei commenti si faceva notare come l’IPCC nel suo AR5, avesse individuato per tale grandezza, una fascia di valori entro cui essa dovesse essere compresa (1,5°C-4,5°C) e non avesse stabilito alcun valore di riferimento. Ricordo anche che negli studi più recenti, tale parametro tende ai valori più bassi della forchetta, come illustrato da questo grafico estratto da un commento di Robertok06.

Bassi valori della sensibilità climatica mal si conciliano con la narrativa corrente del surriscaldamento terrestre, in quanto implicano una scarsa reattività del sistema climatico ai gas serra di origine fossile. Detto in altri termini, lo studio dell’equilibrio radiativo terrestre con alti valori della sensibilità climatica all’equilibrio, presuppone che gli oceani contengano una quantità di calore maggiore di quella che si ottiene dalle misure. Tale problema è noto in ambiente scettico come problema del “calore mancante” o del “calore mannaro” e molte sono state le ipotesi formulate per spiegare il perché di questa differenza tra i risultati dei calcoli teorici e le misurazioni. Una delle più suggestive è stata elaborata dal dr. K. Trenberth e postula che il calore in eccesso sia scomparso nelle profondità oceaniche.

Che gli oceani siano un pozzo per il calore, è un fatto incontrovertibile per cui ci sarebbe poco da indagare: l’acqua ha una capacità termica enorme ed è in grado di immagazzinare una quantità altrettanto enorme di calore, anzi gli oceani sono il motore del sistema climatico in quanto essi garantiscono, attraverso la circolazione termoalina, la redistribuzione del calore tra poli ed equatore. Il problema è che nell’acqua il calore si trasmette per conduzione e, soprattutto, per convezione. In entrambi i casi ci si aspetta di passare gradualmente da una temperatura elevata in superficie ad una temperatura via via decrescente in profondità. Detto in altri termini un riscaldamento delle profondità oceaniche è illogico se le acque superficiali restano a temperatura costante.

La stima del calore contenuto negli oceani è piuttosto complessa e si basa su milioni di dati provenienti da navi, rilievi idrografici, boe fisse e mobili e, dopo il 2007, sulle boe robotiche del programma ARGO.

Tali dati sono piuttosto discontinui e disomogenei, per cui vengono sottoposti ad operazioni di interpolazione ed omogeneizzazione che riescono a fornirci valori di temperatura delle acque superficiali e profonde degli oceani. Da tali dati di temperatura si risale al contenuto di calore oceanico e, cosa ancora più importante, alla sua variazione nel tempo. Ebbene, tutti gli studi basati su queste metodiche hanno messo in evidenza un contenuto di calore degli oceani molto più basso di quanto ci si aspettasse dai calcoli teorici, effettuati ipotizzando alti valori della sensibilità climatica (transitoria ed all’equilibrio).

Un recentissimo studio i cui risultati sono stati pubblicati recentemente su Nature, sembra aver risolto il problema e trovato il calore mancante:

Quantification of ocean heat uptake from changes in atmospheric O2 and CO2 composition di L. Resplandy, R.F. Keeling, Y. Eddebbar, M.K. Brooks, R. Wang, L. Bopp, M.C. Long, J. P. Dunne, W. Koeve ed A. Oschlies (da ora Resplandy et al., 2018).

Resplandy et al., 2018 partono proprio dalle considerazioni che ho appena finito di svolgere e propongono un nuovo modo per calcolare il contenuto di calore degli oceani. Il punto fondante del loro studio riguarda il fatto che oceani più caldi determinano una degassificazione degli stessi. In particolare vengono emessi ossigeno, diossido di carbonio ed azoto che vanno ad accumularsi in atmosfera. Le quantità di gas emesse dagli oceani dipendono direttamente dalla temperatura degli stessi, per cui nota la variazione di concentrazione di questi gas in atmosfera, si può determinare la variazione di temperatura degli oceani e, quindi, la variazione di quantità di calore degli stessi.

Resplandy et al., 2018 partono dalla concentrazione di CO2  ed O2 atmosferica e calcolano un indice (APO) che tiene conto delle concentrazioni di questi due gas. Depurano, successivamente, questo dato dalle emissioni imputabili all’uomo ed alle fonti terrestri ed ottengono il valore delle emissioni di gas imputabili agli oceani relativamente al periodo 1991-2016.

Sulla scorta delle stime effettuate, Resplandy et al., 2018 giungono alla conclusione che l’IPCC nel suo 5° rapporto, ha pesantemente sottovalutato il contenuto di calore degli oceani: esso è circa il 60% più grande di quanto indicato in AR5 e nei lavori scientifici sui quali si basa il rapporto. Questo significa che la sensibilità climatica all’equilibrio si sposta verso l’alto e diviene addirittura maggiore del valore massimo previsto dall’IPCC. Conseguentemente risulta evidente che per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e, quindi, contenere l’aumento della temperatura globale entro i 2°C rispetto alle temperature pre-industriali, bisogna ridurre le emissioni di gas serra di un ulteriore 25% rispetto a quanto previsto nell’Accordo di Parigi.

Resplandy et al., 2018 mi lascia molto perplesso. I motivi di perplessità sono diversi e mi limiterò ad elencarli commentandoli brevemente. Spero che su di essi possa svilupparsi un dibattito costruttivo.

Resplandy e colleghi calcola il contenuto di calore degli oceani attraverso un dato di prossimità, la quantità di diossido di carbonio e di ossigeno rilasciati dagli oceani. Questo dato non è misurato direttamente, ma desunto da una serie di differenze che coinvolgono dati relativi ad altri parametri a loro volta stimati anche mediante modelli numerici. Mi sembra che l’incertezza dei risultati associata a queste complesse operazioni di stima che coinvolgono diversi modelli matematici, sia ben maggiore di quella indicata nello studio (+/- 0,11 w/m2 di superficie terrestre).

Si dice che il diossido di carbonio sia un gas ben diluito nell’atmosfera terrestre, per cui la sua concentrazione può essere stimata sulla base di un piccolo numero di misurazioni. Vale lo stesso discorso anche per l’ossigeno?

L’ossigeno è un gas molto più reattivo del diossido di carbonio, per cui esso si combina con moltissime sostanze presenti sulla superficie terrestre e quindi non sono affatto convinto che esso, una volta rilasciato dagli oceani, permanga nell’atmosfera per anni come sembra accadere per la CO2. Il ciclo dell’ossigeno è, inoltre, estremamente più complesso da ricostruire rispetto a quello del diossido di carbonio.

Siamo in grado di determinare con certezza il ciclo dell’ossigeno e del diossido di carbonio tenuto conto delle quantità di diossido di carbonio emessa dall’uomo, dagli ecosistemi terrestri e dagli altri “pozzi di carbonio” terrestri? Abbiamo individuato perfettamente tutti i passaggi che regolano il complesso scambio gassoso tra oceani ed atmosfera?  Io penso di no, per cui ho molti dubbi che il calcolo effettuato da Resplandy et al., 2018, abbia una precisione tale da poter considerare i loro risultati migliori di quelli ottenuti mediante misurazioni dirette delle temperature marine.

Il metodo elaborato da Resplandy et al., 2018, mi sembra molto simile ai modelli semi-empirici utilizzati per stimare il tasso di aumento del livello del mare e ho l’impressione che sia affetto dagli stessi problemi: sovrastima pesantemente i risultati delle elaborazioni numeriche. Personalmente reputo poco realistici tutti quei metodi che trascurano le grandezze fisiche misurabili direttamente, per sostituirle con dati di prossimità piuttosto aleatori. Una cosa è far ricorso ai dati di prossimità quando si ha a che fare con grandezze non misurabili direttamente (caso delle paleo temperature, per esempio), un’altra è sostituire le misure eseguibili direttamente con quelle derivate da dati di prossimità.

Altro punto debole dello studio mi sembra sia quello di legare il contenuto di  calore globale dell’oceano ad un parametro di cui conosciamo poco, ovvero la quantità di gas rilasciato. Lo scambio gassoso tra oceano ed atmosfera è molto, ma molto complesso e dipende da numerosi fattori: concentrazione del gas in atmosfera, temperatura dell’acqua oceanica, circolazione termoalina, fotosintesi ed altre variabili biologiche  e via cantando. Oggi si parla di acidificazione degli oceani perché l’aumento di CO2 atmosferica, determina una maggiore concentrazione della CO2 disciolta in acqua. Sembrerebbe che gli oceani assorbano circa un quarto del diossido di carbonio prodotto dall’uomo, per cui la quantità di diossido di carbonio rilasciata dagli oceani per aumento di temperatura, dovrebbe essere di molto inferiore a quella assorbita, altrimenti non ci sarebbe acidificazione degli oceani. Siamo in grado di stimare questa quantità isolandola dal “rumore di fondo” dello scambio gassoso oceani-atmosfera indotto dalla variazione di concentrazione atmosferica della CO2 e da tutte le altre variabili che regolano gli scambi gassosi oceano-atmosfera? Ho fortissimi dubbi in proposito e questi dubbi crescono se guardo i grafici allegati all’articolo (nubi di dati molto estese rispetto ai valori medi calcolari).

E per finire, siamo proprio sicuri che le misurazioni che hanno generato i dati relativi alle grandezze che regolano gli scambi gassosi oceano atmosfera siano più uniformi e più omogenee di quelle relative alle temperature? Io penso di no. La temperatura è un dato molto più semplice da misurare rispetto a parametri come la concentrazione dei gas disciolti nelle acque oceaniche e quella dei gas atmosferici. La rete utilizzata per la misura delle temperature, pertanto, dovrebbe essere molto più estesa e capillare di quella che viene utilizzata per la misura dei dati, posti a base dello studio di Resplandy e colleghi.

In conclusione reputo molto più affidabili i lavori basati su dati di temperatura misurati che Resplandy et al., 2018, per cui concludo che il calore mancante ancora non è stato trovato.

Post Scrittum

Dopo aver editato questo interessante post di Donato Barone, ho trovato in rete un articolo di Nick Lewis rilanciato su twitter da Judith Curry. Pare che l’articolo in questione sia viziato da un errore molto significativo nei calcoli e da deduzioni non supportate dai dati. In sostanza c’è un errore nella quantità di calore individuata, che sarebbe invece largamente inferiore, e la tesi che sia necessario alla luce dei dati forniti un ulteriore 25% di riduzione delle emissioni per centrare il target dei 2°C non trova giustificazione nel ragionamento degli autori.

https://twitter.com/curryja/status/1059867965913354240

Lewis ha richiesto e sollecitato una risposta degli autori, senza fortuna, comunicando loro le sue intenzioni di scrivere un commento o rebuttal. Se l’errore individuato dovesse essere reale (e lo è), è incredibile che questo paper abbia passato il referaggio su Nature, a meno che, trattandosi dello scaffale “è peggio del previsto, abbiamo poco tempo e dobbiamo fare di più” non sia stato pubblicato sulla fiducia ;-).

Chissà se vedremo mai una correzione, stiamo pur certi che non vedremo mai una riconsiderazione da parte dei media del risalto dato a questo paper.

Spero che Donato mi perdoni l’incursione nel suo post.

gg