Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 01 Novembre 2019
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=51751

Oggi l’ho sentita davvero grossa, perdonatemi se non vi dico precisamente dove, lo faccio per carità di Patria, ma trattasi di un palcoscenico – perché ormai siamo alla farsa – affacciato su una delle platee più affollate che ci sia.

In breve, ne abbiamo parlato anche recentemente, che il buco dell’ozono si sta stringendo o, meglio, quest’anno l’estensione dell’area con il massimo depauperamento dello strato di ozono al termine dell’estate australe è la più piccola da quando esiste il monitoraggio, ossia da quando è stato siglato e poi implementato il Protocollo di Montreal per la messa al bando dei CFC. Questa notizia, di per se’ buona, è stata interpretata, chi l’avrebbe mai detto, in chiave clima che cambia, trasformandola quindi in non proprio buona, perché, secondo l’esperto di turno, il restringimento dell’area soggetta a depauperamento potrebbe essere una conseguenza del riscaldamento globale e, quindi, dei cambiamenti climatici.

Prima di proseguire, ecco il video che mostra l’insorgere del “buco” per il 2019.

Un breve riassunto.

L’ozono, molecola formata da tre atomi di ossigeno, interagisce in stratosfera con la radiazione ultravioletta in arrivo dal sole rompendo il legame di uno degli atomi e formando così molecole di ossigeno con due atomi, quello che respiriamo. In questo modo lo strato di ozono protegge la superficie del pianeta dai raggi UV. Dal momento che anche i gas CFC, di origine ovviamente antropica, provocano la stessa scissione, la rottura di molecole di ozono da essi causata impoverisce lo strato e ne limita l’efficacia, semplicemente perché c’è meno ozono disponibile per schermare i raggi UV. L’assottigliamento più importante avviene tutti gli anni nella stratosfera polare dell’emisfero sud a fine inverno, non appena il sole si “riaffaccia” a quelle latitudini al termine della notte polare. Questo perché nel processo di interazione tra raggi UV e ozono è molto importante la temperatura dello strato, che a fine inverno è molto bassa. Infatti, più è bassa la temperatura più è efficace l’interazione. Diversamente, se la temperatura dello strato è un po’ più alta, il processo è meno efficiente.

E questo è proprio quello che è accaduto quest’anno. Poche settimane prima che riapparisse il Sole infatti, la stratosfera polare australe è stata interessata da un SSW (Stratospheric Sudden Warming), una dinamica della circolazione dell’alta atmosfera che comporta un improvviso e forte riscaldamento dello strato, piuttosto rara per l’emisfero australe e molto più frequente, accade circa una volta l’anno, per quello boreale. Questo riscaldamento ha posto le condizioni per una scarsa efficacia del processo di depauperamento e, quindi, per un’estensione dell’area interessata dal processo molto più piccola rispetto al passato. Il tutto in un trend di lungo periodo che, pur con molte oscillazioni, sta vedendo comunque un progressivo restringimento di quell’area, anche per l’efficacia del bando dei CFC.

Ora, al di là dell’ignoranza mostrata rispetto alla cronaca recente e alla complessità delle dinamiche coinvolte (basta il global warming che ce vo’), è bene sottolineare che l’aumento della temperatura media superficiale del pianeta (quale sia la causa) riguarda appunto la superficie e, in misura minore gli strati superiori del primo strato della nostra atmosfera, la troposfera. In stratosfera, invece, si registra una reazione contraria, cioè di raffreddamento. Questo perché aumentando il calore in basso aumenta anche la radiazione uscente, con conseguente raffreddamento dello strato superiore. Infatti, le serie storiche della temperatura stratosferica mostrano trend negativi, con un raffreddamento marcato fino ai primi anni 2000, poi plafonatosi di lì a seguire, guarda un po’ in concomitanza con il rallentamento del GW (la famosa pausa dell’AGW mai spiegata…).

Revisiting the Mystery of Recent Stratospheric Temperature Trends – Maycock et al. 2018, Fig.1.

Una stratosfera mediamente più fredda, come detto, rende il processo di depauperamento stagionale dell’ozono più efficace, e questa probabilmente è la ragione per cui il recupero del “buco” è lento e soggetto a forti oscillazioni da un anno all’altro. Ergo, se proprio dovessimo mettere il buco dell’ozono in relazione al riscaldamento globale, ne dovremmo registrare un incremento e non una diminuzione.

Per raccogliere le idee e scrivere queste poche righe, c’è voluto più o meno lo stesso tempo impiegato dall’esposizione in chiave non-proprio-una-buona-notizia di cui sopra, tempo che a ben vedere avrebbe potuto essere impiegato a sforzarsi di capire come stanno le cose piuttosto che mettere in scena il solito peana dell’AGW, la cui prima vittima, come sempre, non è chi ascolta, ma la conoscenza di questo mondo così complesso e meraviglioso.

Comincio ad essere stanco.

Enjoy.