Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 21 Aprile 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=44256

 

Era il 1920 quando al termine di una conferenza durata un mese e tenuta presso il Madison Square Garden di New York, l’UNIA (Universal Negro Improvement Association and African Communities League) introdusse ufficialmente la “Bandiera Panafricana”: tre strisce orizzontali di colore rosso, nero e verde. Il rosso a simboleggiare il sangue versato per la libertà e che unisce tutte le persone di colore con antenati africani; il nero a simboleggiare la “nazione dei neri”, pur avulsa dall’esistenza stessa di uno stato-nazione; il verde a simboleggiare la ricchezza della terra d’Africa.

Erano altri tempi, in cui la rivendicazione dei diritti civili elementari prevaleva su quel politicamente corretto che nel corso degli anni ha finito per trasformare una parola un tempo rivendicata con orgoglio e dai risvolti letterari in un insulto sanguinoso, la cui sola pronuncia è oggi causa di crisi isteriche di pianto per le conduttrici televisive super-liberal (e super-bionde) della CNN.

Sistemato il “nero”, è poi toccato al “verde”. E qui l’operazione si è fatta più complessa. Se la ricchezza della terra africana è stata talmente apprezzata negli anni da suscitare appetiti finanziari e geopolitici di varia natura, è sul piano dello sviluppo economico ed energetico che l’interpretazione moderna in chiave liberal del colore verde ha prodotto i risultati più controversi.

Affronta in questi giorni l’argomento il Washington Times, quotidiano americano che, proprio dall’ombelico geografico del pensiero unico liberal, si permette il lusso di raccontare storie che non trovano spazio sulla stampa mainstream americana ed europea. E lo fa, in questo caso, affidandosi alla penna (o meglio alla tastiera) di Geoff Hill, giornalista e scrittore sudafricano che conosce la materia e che racconta l’Africa dall’Africa, non da un salotto liberal newyorchese o dall’ufficio stampa di qualche euro-burocrate. Esiste ancora una stampa che racconta storie senza fare il copia e incolla dei lanci della Reuters o dell’AP, vivaddio.

L’articolo

“Power-Starved Africa develops appetite for coal, dismisses environmental concerns in West”. Non ha il dono della brevità, il titolo dell’articolo, ma rende molto bene i contenuti trattati. Di seguito un riassunto dei punti che ho trovato più interessanti:

  • La Tanzania, forte di riserve di circa 5 miliardi di tonnellate di carbone, sta pianificando la costruzione della sua prima centrale elettrica a carbone. Come il Kenya. Altri paesi come Ghana e Nigeria si mostrano interessati all’uso del carbone per la generazione elettrica. Ma ci sono progetti di respiro ancora più ampio, transnazionale: in Botwsana è in costruzione una linea ferroviaria di circa 1,600 km per trasportare carbone da un porto della Namibia al resto del mondo. Del resto il carbone in Africa è una risorsa importante, e non da ieri: il Sudafrica, ad esempio, produce il 93% della sua energia proprio dal carbone. “Se c’è una guerra al carbone, in Africa, probabilmente la sta vincendo proprio il carbone”.
  • La demonizzazione degli idrocarburi, così popolare in occidente per l’azione dei gruppi di pressione ambientalisti sostenuti da solerti scienziati del clima, è portata avanti in Africa prevalentemente da espatriati bianchi e da organizzazioni non governative straniere.
  • John Owusu, ingegnere ghanese con un’esperienza cinquantennale nel campo energetico e sostenitore della prima ora delle energie alternative, fa notare che nonostante la narrativa occidentale di un’Africa piena di sole e pannellabile a più non posso, molti paesi hanno un clima che non è compatibile con la produzione solare a causa dell’esistenza di stagioni delle piogge prolungate in cui il sole può mancare anche per periodi molto lunghi: “Se cucini usando un falò, se non hai elettricità e vai a letto affamato, non rimani sveglio a pensare se sia meglio usare il solare, il gas o il carbone; e se non hai l’elettricità in città, non c’è spazio per investimenti e nuovi lavori. Conservare vaccini, sieri contro i morsi dei serpenti, medicine per l’HIV diventa impossibile senza frigoriferi, e in troppi posti non c’è energia elettrica per alimentarli”.
  • Si obbietterà che esistono zone in cui il solare può essere più efficiente, come quelle a clima arido. Il problema è che diversi esperimenti relativi all’uso di tecnologie verdi sono falliti a causa di problemi che con un eufemismo potremmo definire socio-culturali. In Sudafrica, racconta una imprenditrice, un gruppo di criminali ha sequestrato il suo staff e rubato pannelli e batterie sotto la minaccia delle armi, col risultato che si è deciso di riconnettersi alla rete nazionale. Storie simili vengono anche da altri paesi africani, asiatici, dal Brasile. Nei distretti rurali indiani vicini a Mumbai circa 2,000 villaggi sono stati elettrificati usando pannelli solari: da allora quasi tutte le infrastrutture sono state danneggiate o rubate e il governo sta ricollegando le aree in questione alla rete nazionale, che produce circa il 50% dell’energia grazie al carbone.
  • Il ministro delle finanze nigeriano Adeosun ha affermato l’anno scorso ad un meeting del Fondo Monetario Internazionale: “In Nigeria abbiamo tanto carbone, ma non abbastanza energia. Ci viene impedito di usarlo perché ‘non è verde’. Suona piuttosto ipocrita se si considera che lo sviluppo dei paesi occidentali è stato costruito proprio sull’utilizzo del carbone”.
  • Il tutto accade mentre in America Trump è criticato (dai soliti) per la riapertura delle miniere di carbone. Eppure il sostegno della nuova Amministrazione alle tecnologie per un “carbone pulito” potrebbe tornare utile proprio a quei paesi africani che cercano di regalarsi l’agognata sicurezza energetica. L’ultimo commento dell’articolo è affidato a Griffin Thompson, Assistente del Segretario di Stato per l’Energia: “È prerogativa di ogni stato decidere a quale mix energetico affidarsi. Che sia carbone o rinnovabile, l’importante è che favorisca la crescita economica”.

Qualche commento

È sempre più evidente, a mio parere, il confronto tra due mondi: quello liberal-elitista, fortemente ideologizzato e altrettanto scollato dai bisogni elementari della gente, e il mondo reale. Il mondo reale reclama sempre di più uno spazio che gli viene sottratto da troppo tempo nel nome di presunti problemi “di vitale importanza” ma che al cospetto della realtà quotidiana si rivelano per quello che sono: falsi problemi, distrazioni di massa, assiomi post-ideologici, fondamentalismi di ritorno inseriti in agende in apparenza più o meno colorate ma che nella migliore delle ipotesi sono puramente sgangherate, e nella peggiore, inconfessabili.

In questo specifico caso si parla di sviluppo dell’Africa. E per l’Africa il mondo liberal-elitista sembra proporci la seguente soluzione:

  • Imporre l’uso di energie verdi laddove queste non sono economiche o risultano inapplicabili per problemi di natura sociale o culturale.
  • In ottemperanza all’esigenza di imporre tecnologie più o meno verdi, lasciare centinaia di milioni di esseri umani nella condizione di non poter soddisfare i loro bisogni primari, che proprio sulla facilità di accesso all’energia si fondano.
  • Proporre, come panacea di tutti i mali, immigrazioni di massa dai paesi in via di sviluppo alla volta di quelli già sviluppati: ricetta davvero sorprendente visto che le risorse umane servono dove c’è potenziale di crescita, e non dove la fase di sviluppo più tumultuosa c’è già stata, e ha lasciato il posto a disoccupazione crescente, recessione economica e povertà di ritorno. Il tutto con il duplice effetto di portare disagio economico e distruzione dello stato sociale da una parte, e perpetrare uno stato di cronico sottosviluppo dall’altra, ovvero a danno di quei paesi che hanno un disperato bisogno di risorse umane giovani e motivate per poter spiccare il volo.

Lo scontro tra questi mondi è ovunque, persino in campo religioso, dove al grido di dolore dei vescovi africani che chiedono ai loro giovani di non emigrare per rincorrere impieghi inesistenti in Europa si contrappone la retorica vaticana very liberal dell’accoglienza indiscriminata. Come se svuotare l’Africa delle sue migliori risorse fosse il massimo esempio di misericordia cristiana.

La retorica vuota sulle energie verdi, i fondamentalismi climatici, l’abolizione dei confini nazionali, l’auspicio di un non meglio precisato melting-pot culturale e religioso, le rivoluzioni colorate, l’ossessione per alcune selezionate minoranze: tutto si presenta e si tiene insieme come parte di un armamentario di strumenti ideologici scollati dai bisogni reali della gente e funzionali ad altro. E le cronache di questi giorni non fanno che confermare questo scontro e questo clamoroso scollamento. Per esempio nel ruolo di certe ONG che si auto-definiscono “filantropiche” e sono oggi estremamente attive nel traghettare migranti economici da una parte all’altra del Mediterraneo. Il tutto mentre le (altre?) ONG di cui parla Geoff Hill cercano di fermare i progetti di sviluppo africani che non sono abbastanza “green” per i parametri dei liberal salvamondisti.

Ecco, forse la drammaticità e l’assurdità dello scontro è tutta qui: in questi sedicenti filantropi che nel nome di temperature globali aumentate di pochi decimi di grado in qualche decennio preferiscono lasciare milioni di persone senza vaccini, medicinali contro l’AIDS e sieri anti-vipera. E che nel nome di un non meglio precisato modello di civiltà ideale auspicano la deportazione di milioni di persone dalle loro terre, che di quelle stesse persone hanno bisogno più di ogni altra cosa: energia umana, prima ancora che elettrica, prima ancora che verde.