Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 17 Gennaio 2020
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=52203

Ultimamente la Puglia pare diventata la cartina al tornasole delle follie energetiche, industriali e ambientali dei nostri tempi. Prima, anni di proteste contro la TAP: un tubo invisibile, ma colpevole di portare il gas azero in Italia approdando proprio sulla costa salentina. Poi, la catastrofe della xylella che ha messo fine ad una storia millenaria di produzione olivicola. Quindi la crisi dell’ILVA.

Si sentiva proprio il bisogno della ciliegina sulla torta, arrivata ancora una volta sotto la forma del neo-ambientalismo: il virus approdato anni fa in Europa dalla Silicon Valley californiana e che, mutato geneticamente in Svezia nella variante letale del gretinismo, si appresta a regalare la dolce morte alla manifattura europea.

In Puglia il gretinismo ha assunto una virulenza straordinaria: dopo l’attacco violentissimo che per anni ha colpito qualsiasi cosa somigliasse ad una iniziativa di tipo industriale, la nuova variante svedese del virus propone adesso di “passare all’azione“, come chiedono del resto a gran voce anche i gretini delle scuole pugliesi. Ed eccola servita, l’azione:  proprio nella forma di quegli “investimenti verdi”, che piacciono tanto a Greta, Ursula, Lagarde e a Black Rock (ne parleremo).

È notizia di questi ultimi mesi, infatti, la fioritura di progetti di costruzione di mega-parchi solari nel Salento. Prima a Corigliano d’Otranto: una distesa di pannelli di ben 17 ettari (l’equivalente di 25 campi da calcio) per produrre la miseria di 10.8 megawatt di potenza di picco, cui aggiungere una linea aerea di 8 km che attraverserebbe il territorio di 4 comuni. Alla gretinata di Corigliano, poi, si vorrebbe aggiungere la chicca di un mega-impianto solare nel nord del leccese, a ridosso dalle famose spiagge di Porto Cesareo e Punta Prosciutto: in questo caso parliamo di ben 44 ettari (60 campi da calcio), centomila pannelli, 23 cabine elettriche e un cavidotto interrato. Il tutto per una  produzione di picco di 46 MW.

Al lettore medio certi numeri diranno piuttosto poco, ma a chi mastica di energia dicono tanto, e dicono tanto male.

Pannello vs. Generatore a Gas

Per produrre una potenza di picco pari a quella dei due parchi solari, basterebbero un paio di turbogeneratori aero-derivativi TM2500 di General Electric, un’apparecchiatura talmente compatta da essere portatile: trasportabile via nave o persino con un aereo, in 11 giorni può essere messa in servizio. Impatto ambientale bassissimo, come per i moderni sistemi di generazione a gas. E con una differenza non da poco: quella potenza verrebbe prodotta in modo costante, quali che siano le condizioni atmosferiche o la stagione.

Fig. 1. Wärtsilä 31SG (W20V31SG) for power plant application inside the Vaasa Factory, Finland

Se si volesse invece produrre l’equivalente annuale dell’energia associata ai parchi-mostro in questione, basterebbe un modestissimo generatore con motore a gas, come il Wartsila 31 SG nella foto in Fig.1: praticamente “tascabile”.

Forse è il caso che qualcuno spieghi al cittadino salentino perché bisognerebbe sacrificare 85 campi da calcio di terreno coltivabile per produrre la stessa quantità di energia che si potrebbe generare con un impiantino che occupa la superficie di un piccolo bilocale: un rapporto di space occupancy di circa 15,000:1.  Qualcuno si offre volontario?

Lo scempio di un patrimonio nazionale

La questione più grave, infatti, è che si intenda occupare 600,000 metri quadrati di terreno agricolo coltivabile a vite o olivo, piuttosto che a melograno o a carciofi, per coprirlo con una distesa di specchi neri. Che renderanno quel terreno non più fruibile. E non solo per scopi agricoli, ma anche per fare una passeggiata nei campi, o per la fauna locale, nel silenzio tombale delle altrimenti attivissime associazioni animaliste. Per non dire dell’impatto osceno dal punto di vista paesaggistico: quello che vale per una ciminiera che rilascia un pennacchio bianco di vapore acqueo, evidentemente non vale per una distesa sconfinata di silicio su terreni fertili nel cuore del Mediterraneo.

Ché il vero punto è proprio questo: in un Paese in via di rapida deindustrializzazione e disfacimento economico e sociale come l’Italia, la geografia e il clima sono probabilmente tra le poche cose che non ci possono essere sottratte. Il clima giusto per produrre il vino ce l’abbiamo noi e pochissimi altri posti al mondo. Il clima giusto per produrre l’olio d’oliva ce l’abbiamo noi e pochissimi altri. Idem per il melograno (produzione di eccellenza proprio nell’area dell’eco-mostro solare da 44 ettari) e per tante altre colture che sono privilegio di pochi fazzoletti di terra a clima mediterraneo. Fazzoletti di terra che il mondo ci invidia e di cui la stragrande maggioranza dei paesi non potrà mai disporre a casa propria.

E noi cosa intendiamo fare, di questo patrimonio? Lo seppelliamo sotto distese di specchi neri per produrre una quantità risibile di energia, specchi che non aiutano in nessun modo il made-in-Italy (verrebbero importati dalla Cina) e che non creano posti di lavoro nemmeno nella gestione degli impianti. 600,000 mq di terreni fertili sacrificati. In cambio di nessun beneficio per la comunità locale.

Uno scempio rivelatore

Seppellire il Salento sotto una coperta nera di silicio sarebbe certamente uno scempio del territorio del tutto ingiustificabile. Ma avrebbe almeno il merito di rendere, plasticamente, la contraddizione tra una narrativa faziosa e interessata che pretende di vedere in queste gretinate un segno di progresso e di benessere, e una realtà che racconta una storia completamente diversa: quella di una corsa verso il baratro, a rotta di collo, in cui non si salva nulla. Tantomeno il territorio: ovvero l’ultimo asset di valore che ci rimarrà, quando questa follia  suicida pseudo-ambientalista sarà finalmente passata.