Autore: Luigi Mariani
Data di pubblicazione: 22 Agosto 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=45561
Premessa
Il tema di questo articolo è la generale tendenza al raffreddamento manifestata dal clima terrestre negli ultimi 50 milioni di anni, una tendenza culminata nel Pleistocene (ultimi 2,5 milioni di anni). Per sviluppare questo concetto ho fatto riferimento ai dati provenienti da più fonti e presentati in un paper di Hansen et al. uscito nelle Philosophical transactions della Royal society (2013). Tali dati mi sono caduti sott’occhio perché assai di recente riproposti da Wim Röst su WUWT (2017).
Fenomenologia del raffreddamento
Dell’articolo di Hansen et al. (2013), riferito al Cenozoico (ultimi 65 milioni di anni), colpiscono in particolare gli andamenti delle temperature dei fondali oceanici che, dopo un massimo di 12°C raggiunto nell’Eocene (circa 50 milioni di anni fa) mostrano in sostanza un calo pressoché continuativo culminato negli ultimi 2,5 milioni di anni e cioè nel pleistocene (figura 1). Secondo quanto arguiscono gli autori tale calo è stato accompagnato da un analogo calo del livello degli oceani, delle temperature di superficie e dei livelli atmosferici di CO2.
Tale fenomeno generale non può a mio avviso non porre alcuni interrogativi. In particolare da 50 milioni di anni fa ad oggi:
- la temperatura media planetaria di superficie sarebbe calata da 28°C a 12°C (figura 2)
- il livello degli oceani sarebbe calato di parecchie decine di metri (figura 3)
- la CO2 atmosferica sarebbe calata da 1000 ppmv alle 180 ppmv delle ere glaciali pleistoceniche.
Da ciò si desume che il sistema climatico terrestre parrebbe per sua natura vocato a una sempre maggiore prevalenza del regime glaciale, che si è sostanziata nella comparsa della calotta antartica 38 milioni di anni fa e di quella artica 8 milioni di anni fa. Peraltro tale tendenza al raffreddamento si ripropone anche su scale temporali più limitate e più nello specifico:
- nel corso del pleistocene, che ha visto il susseguirsi di una serie di interglaciali caldi alternati a ere glaciali (figura 2). Il fatto è che, come sottolinea Röst nel suo scritto, le ere glaciali pleistoceniche da 2,45 milioni di anni fa al 1 milione di anni fa si sono susseguite mediamente al ritmo di una ogni 41000 anni, in perfetta coerenza con le ciclicità di Milankovich da obliquità, mentre da 1 milione d’anni a oggi (figura 4) il ritmo è salito mediamente a 1 era glaciale ogni 100000 anni, con la soppressione delle ere glaciali che non godevano di un forcing astronomico sufficientemente potente.
- nel corso dell’Olocene, in cui le temperature dopo il grande optimum postglaciale (fra 8500 e 5500 anni orsono) hanno manifestato un graduale decremento temporaneamente interrotto solo da 3 optimum (miceneo, romano e medioevale) per raggiungere nel corso della Piccola era Glaciale (PEG) il livello più basso dalla fine della glaciazione di Wurm.
- nella stessa fase di GW attualmente in atto assistiamo a fasi di incremento delle temperature globali intervallate a fasi di stazionarietà-lieve diminuzione.
Si noti anche il peculiare comportamento delle temperature pleistoceniche (figura 4) nelle transizioni glaciale – interglaciale. In almeno tre casi infatti (transizione verso Holsteiniano, Eemiano e Olocene) è evidente che l’uscita dalla fase glaciale avviene in modo molto rapido in virtù di una forzante di grandissima efficacia, che non fu ovviamente antropica e che nel caso di Holsteiniano e Eemiano ha portato il livello marino a parecchi metri al di sopra del livello attuale (Hansen et al. 2013) in virtù di una imponente fusione delle calotte glaciali groenlandese e antartica che non trova fin qui riscontro nell’Olocene. Nei tre casi citati tuttavia al rapidissimo incremento segue un lento declino, per cui esauritosi l’effetto dell’elemento forzante la temperatura terrestre riprende la sua ordinaria deriva verso il raffreddamento.
Domande conseguenti alla fenomenologia descritta
La domanda che suscitano questi andamenti è relativa alla ragione per cui negli ultimi 50 milioni di anni il clima mostra una irrefrenabile tendenza al raffreddamento. Alle radici vi è la riduzione del vulcanesimo che riforniva l’atmosfera di CO2 (come ipotizzato da Hansen et al., 2013) o vi sono altre ragioni, come motivi astronomici o motivi geografici legati alla configurazione senza precedenti assunta dalle terre emerse in virtù della deriva dei continenti o ancora motivi legati all’incremento dell’albedo planetario? Come si saranno comportate le nubi da cui ad esempio dipende il 24% dell’effetto serra terrestre e una parte consistente dell’albedo planetario?
E’ corretto l’approccio proposto da Wim Röst secondo cui mi pare di capire che sarebbe il fondale degli oceani a “parlare” all’atmosfera che ne amplifica il segnale di raffreddamento moltiplicandolo grossomodo per 2 – 2.5? Da questo punto di vista sappiamo che su scale temporali ridotte (la recente fase di GW) le temperature oceaniche “parlano” all’atmosfera come risulta osservando il comportamento dell’indice AMO (quando tale indice è in fase negativa le temperature globali si stabilizzano o manifestano una certa diminuzione) o i fenomeni di El Nino (anche qui riscaldamenti molto rapidi seguiti da lenti raffreddamenti).
In tale contesto non è infine da trascurare l’ipotesi, avanzata da Moore e già discussa in un post su CM (http://www.climatemonitor.it/?p=41638), secondo cui CO2 possa aver sfiorato durante le ere glaciali del quaternario il punto di non ritorno e cioè il livello critico al di sotto del quale la fotosintesi si arresta e di conseguenza le catene alimentari non più nutrite dagli autotrofi “muoiono di fame”.
Conclusione e una postilla
Hansen et al. (20139 iniziano il loro articolo con la frase, “Humanity is now the dominant force driving changes in the Earth’s atmospheric composition” ripresa dal report IPCC del 2007. In un tale contesto la tendenza al raffreddamento è ovviamente sorvolata anche se viene spontaneo un sommesso ma deciso “Eppur si muove!”.
Come ulteriore postilla segnalo che dal lavoro di Hansen et al. (2013) emerge una costante preoccupazione, che mi pare sincera, in relazione agli effetti negativi di CO2 sul sistema climatico. Ma se il pericolo è tento imminente perché concentrare i nostri sforzi su “pannicelli caldi” come quelli che ci vengono da Parigi e che non spostano in alcun modo il trend in crescita di CO2? Non varrebbe invece la pena di puntare decisamente sull’opzione nucleare che produce energia senza emettere una molecola di CO2? E’ questa una domanda che mi pongo da anni e sui cui potei immaginare un’alleanza fra chi detiene una cultura pragmatica e che escluda l’ambientalismo più becero, e cioè quello che fa emergere i problemi e al contempo blocca tutte le possibili soluzioni, tenendo in scacco i nostri sistemi politico-sociali e creandosi rendite di posizione giganti.
Riferimenti
- Hansen J, Sato M, Russell G, Kharecha P. 2017. Climate sensitivity, sea level and atmospheric carbon dioxide. Phil Trans R Soc A 371: 20120294. http://dx.doi.org/10.1098/rsta.2012.0294 (http://rsta.royalsocietypublishing.org/content/roypta/371/2001/20120294.full.pdf).
- Rost W., 2017. Cooling Deep Oceans – and the Earth’s General Background Temperature https://wattsupwiththat.com/2017/08/13/cooling-deep-oceans-and-the-earths-general-background-temperature/
- Zachos JC, Dickens GR, Zeebe RE, 2008. An Early Cenozoic perspective on greenhouse warming and carbon-cycle dynamics. Nature 451, 279–283. (doi:10.1038/nature06588)