Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 15 Agosto 2020
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=53269

È cronaca di questi giorni il collegamento del più grande parco fotovoltaico italiano alla rete. Una distesa sconfinata di silicio equivalente a 200 campi di calcio… O meglio, campi di grano, vista la vocazione naturale e secolare dell’area in cui è stata realizzata l’opera in questione: il comune di Troia, nel tavoliere delle Puglie. In un precedente articolo avevamo già sottolineato che una generazione di potenza equivalente si potrebbe ottenere (per questo specifico caso) con un paio di generatori a gas praticamente “tascabili”, salvando in questo modo quei 200 campi di grano e senza impatti significativi sull’ambiente (al netto, ovviamente, della produzione di CO2, ovvero del cibo di cui si nutrono anche le piante di grano in questione).

Uno scempio agricolo senza precedenti

Ma quello di Troia non è certo un caso isolato: spuntano come funghi i campi solari in Italia, e con la stessa velocità spariscono centinaia di ettari di terreno coltivabile. Solo per rimanere in Puglia, i campi solari a terra hanno divorato più di 4,600 ettari, con associata perdita di circa 500 ettari di vigneti, 200 ettari di oliveti, 90 ettari di frutteti e 560 ettari di orticole. Ad oggi, all’incirca il 3% dell’estensione territoriale del comune di Brindisi è stato ricoperto di pannelli neri di silicio.

Che uno scempio ambientale e un suicidio agricolo di queste proporzioni riguardi una regione messa letteralmente in ginocchio dalla tragedia della xylella, è solo la ciliegina sulla torta. Ma le questioni sul tavolo sono tante, e alcune obbiettivamente sorprendenti.

Sinergie europee

Dietro al parco-mostro di Troia ci sono investitori danesi, al secolo la “European Energy”  che vanta l’impiego di manodoperalocale per ben (!) 400 persone durante i lavori di costruzione (durati appena un anno), e con coinvolgimento del cosiddetto “indotto italiano”, che si immagina di livello alquanto basso giacché il cuore della fornitura (i pannelli) viene prodotto all’estero e non certo in Italia. Infine si fa riferimento alla necessità di usare manodopera locale per la “manutenzione”, concetto in sé risibile al cospetto di una distesa di pannelli e di cavi che non necessitano di particolari attenzioni manutentive: ecco, al più qualche volenteroso spazzolatore per spolverare i pannelli onde evitare sgradite perdite di efficienza, e un tosaerba.

Volendo banalizzare, abbiamo barattato imprenditori locali, contadini, e una intera filiera di produzione agricola, con un paio di lava-vetri e giardinieri. I profitti, in compenso, sono volati all’estero. Giustamente soddisfatto il CEO danese della European Energy che con involontaria ironia sottolinea come l’Italia sia un mercato molto importante per la sua società, perché da noi c’è tanto sole (mica come in Danimarca), quindi si possono fare ricchi profitti, tant’è che altri 800 milioni di euro verranno spesi nei prossimi anni per tappezzare di silicio altri terreni italiani. “Questo campo fotovoltaico da record è un perfetto esempio di sinergia economica europea”, conclude. Ed è difficile dargli torto: un paese dell’Unione si suicida, e un altro ne ricava un profitto: sinergia europea  davvero perfetta.

Passa lo Straniero

Il caso di Troia non è certo isolato: scartabellando in rete si troveranno molteplici esempi di investimenti esteri in progetti energetici “rinnovabili” in Italia. E la tendenza è verso una crescita apparentemente inarrestabile. Ad esempio, è di pochi mesi fa la notizia che per incentivare il tappezzamento del suolo italico con pannelli solari, adesso si potrà anche usare il “crowdfunding”: merito di una legislazione italiana all’avanguardia (guarda un po’) e merito anche della società a partecipazione tedesca “Solar-Konzept”, il cui amministratore delegato Nicolaus Von Einem tiene a sottolineare l’impegno della sua società alla “inclusitività”, giacchè consentirà che una piccola quota dell’investimento sia acquistata dai fortunati cittadini che baratteranno la terra col pannello. Quale terra? Ma quella dei pugliesi naturalmente!

Che il trend sia forte e chiaro ce lo conferma Repubblica, che ovviamente gioisce per il fatto che l’Italia attragga sempre più investimenti esteri nel campo delle rinnovabili. Certo è stupefacente che un Paese come l’Italia da cui le aziende straniere si tengono volentieri lontane per il mix letale di tassazione vampiresca, burocrazia inferocita e incertezza assoluta del diritto, diventi un eldorado solo per gli investimenti stranieri in  energie “rinnovabili”, e in particolare per quelli che comportano un consumo gravissimo del suolo.

Un mix “favorevole”

Ben inteso, gli investitori stranieri che fanno profitti in italia meritano solo applausi: da bravi imprenditori investono il loro capitale dove c’è una ragionevole certezza di profitto. Lo fanno in assoluta legalità, sfidando un contesto legislativo, fiscale e burocratico da terzo mondo. Ma proprio per questo, il profitto deve essere solare (si perdoni il gioco di parole).

Ma cosa garantisce il profitto degli investimenti in impianti solari a terra in Italia? In principio furono i generosissimi incentivi, che tuttavia proprio per gli impianti a terra e l’impatto che comportano, sono andati diminuendo nel tempo. Gli investimenti in questione restano tuttavia profittevoli anche in assenza di incentivi per ragioni molteplici che sarebbe troppo lungo indagare in questa sede, tra cui:

  • Il clima, banalmente, per la combinazione di soleggiamento e intensità della radiazione solare che al Meridione è particolarmente favorevole.
  • Il costo dei terreni, assolutamente risibile rispetto al loro valore reale, specie per realtà agricole economicamente e socialmente distrutte come la Puglia del post-xylella, in cui i terreni sono liquidati per quattro soldi da imprenditori rovinati, o da famiglie che non intendono spendere soldi per disfarsi di olivi scheletriti. A conferma di questa anomalia tutta italiana, il fatto che i progetti più grandi al mondo di parchi solari sono stati realizzati in aree desertiche, remote o comunque brulle e non sfruttate per scopi agricoli.
  • La disponibilità di acquirenti disposti a pagare bene, e per tempi molto lunghi, l’energia prodotta da fotovoltaico. E questo a causa delle pressioni imposte dalle normative europee e dai diktat di stampo sovietico sulla decarbonizzazione che costringono produttori di energia “convenzionale” ad acquistare (a carissimo prezzo) energia “rinnovabile” sia per questioni di compliance che, soprattutto, per questioni di immagine (leggi greenwashing). Tanto alla fine il costo viene comunque scaricato sul consumatore italiano.

Terzo Mondo

Una riflessione amara è inevitabile. l’Italia sta cedendo porzioni considerevoli del proprio territorio, un territorio di valore altissimo dal punto di vista storico, paesaggistico e agricolo, baciato da un clima unico e in grado di produrre eccellenze alimentari di livello assoluto. Le sta cedendo in cambio di distese sterili di pannelli di silicio, che portano con sé perdita della biodiversità, perdita del carbonio organico, alterazione della qualità degli habitat, inquinamento termico, inquinamento visivo: tutti temi normalmente molto cari agli ambientalisti di casa nostra, specie quando si tratta di bloccare lavori portati avanti da imprese italiane. Eppure curiosamente ignorati, specie dalla “grande stampa nazionale”, quando a lavorare sono imprese straniere che installano pannelli cinesi o pale eoliche tedesche.

Per giunta, questa liquidazione dell’asset più strategico che ci rimane, ovvero il nostro territorio, avviene senza generazione di livelli occupazionali significativi, aggrava il costo della bolletta energetica nazionale e si associa a profitti che in molti casi finiscono all’estero. Il tutto anche grazie a normative draconiane europee che impongono la produzione di energia “verde” e si traducono infine in uno spettacolare trasferimento di ricchezza dall’Italia ai suoi “amici europei” col pretesto di salvare il clima.

Adesso facciamo un gioco, e raccontiamo questa stessa storia con la neolingua tanto cara ai terzomondisti di casa nostrail povero indigeno italico è costretto a svendere la sua terra, a impoverirsi e a regalare la sua ricchezza allo straniero, a causa della pressione di gruppi di potere di stampo neo-colonialista con promesse di sviluppo ingannevoli e disumane. Suona bene, vero?!

Ed è proprio un contrappasso beffardo, quello che vedrebbe l’Italia trasformarsi veramente in Terzo Mondo agricolo, sociale e manifatturiero proprio a seguito dell’azione infaticabile della lobby dei buonisti terzomondisti  e salvambiente. Azione che  in ultima analisi si traduce in politiche energetiche scellerate, promosse in modo pianificato e dirigista da sovrastati senza volto, e subite senza opporre alcuna resistenza. Anzi, addirittura agevolate, proprio nel nome di quelle stesse ridicole e scassate utopie salvamondiste.

Un contrappasso di cui i nostri profeti della decrescita (in)felice sarebbero sicuramente soddisfatti. E di cui noi, e soltanto noi, potremo ritenerci responsabili.