Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 08 Gennaio 2019
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=50002

Claas Relotius, reporter dello Spiegel, era il ragazzo prodigio del giornalismo europeo: “Migliore Reporter Tedesco” nel 2013 e 2016, “Giornalista dell’Anno” per la CNN nel 2014, nel 2017 vince il Premio Europeo “Distinguished Writing Award” per “La storia di Ahmed ed Alin”, due bambini siriani in fuga da Aleppo a causa del perfido Assad. Una storia rivelatasi piena di falsità, persino nella sua declinazione successiva, fatta di ulteriori articoli in cui il giornalista-prodigio, indossate le vesti del filantropo, descrive i suoi tentativi (mai esistiti) di aiutare i bambini in questione.

Il fatto è che il Relotius di bufale ne ha fabbricate tante. Almeno 14 gli articoli già accertati come falsi. E non si parla di inesattezze o di orpelli giornalistici, ma di invenzioni di sana pianta. Come la storia/intervista del prigioniero detenuto “ingiustamente” a Guantanamo: una storia totalmente inventata, a fronte di una intervista mai nemmeno fatta.

Alla scoperta dell’America

In questo quadro già di per sè poco edificante, si inserisce un altro clamoroso falso di Relotius, dai contorni addirittura grotteschi. All’indomani dell’elezione di Trump, la redazione dello Spiegel lo manda in Minnesota, a Ferguson Falls, nel cuore dell’America rurale che ha votato in massa per il controverso presidente americano. Per indagare come possa essere accaduto un fatto così assurdo per le menti illuminate della liberalissima Amburgo, città natale dello Spiegel.

Il problema è che Relotius in Minnesota non trova nulla: non c’è una storia da raccontare, perché a Ferguson Falls la gente è normale, fa una vita tranquilla, persino noiosa. Lo scrive via mail ai suoi amici e persino colleghi, Relotius: scrive che si annoia, perché non c’è nulla di cui parlare. Eppure la notizia da raccontare ci sarebbe: ovvero che gli elettori di Trump sono persone assolutamente normali. Invece no, Relotius inventa una ennesima storia di sana pianta, a partire da un cartello scritto a mano: “Messicani state fuori”, esposto su un bastone di legno piantato nel terreno dagli abitanti del posto. Un cartello mai esistito.

È solo l’inizio: gli abitanti di Ferguson si trasformano magicamente in una sfilata di buzzurri, ignoranti e razzisti: figure grottesche, con tanto di biografie totalmente inventate. Non si fa scrupolo, lo scrittore tedesco, di inserire anche dei giovani studenti tra i pupazzi del suo teatrino: alla richiesta di disegnare il personaggio che incarna il sogno americano, gli studenti-immaginari di Relotius non avrebbero disegnato “nemmeno una donna”, bensì  “Tanti Trump”, al cospetto di “un solo Obama”. Persino i riferimenti geografici sono totalmente inventati, a partire dalla “foresta oscura” che a Relotius appare popolata di dragoni immaginari. Peccato che Ferguson sorga su una prateria, e di alberi proprio non ce ne siano.

L’articolo si è persino trasformato in un caso diplomatico, con l’ambasciatore americano in Germania Grenell a chiedere conto, sdegnato, dei contenuti diffamanti del pezzo. Insinuando che la causa di quell’articolo fosse da ricercare nel “bias” di fondo della rivista tedesca, piuttosto che nella disonestà intellettuale dello scrittore.

Questione di bias

Il punto, in effetti, è proprio questo: se è vero che lo Spiegel rappresenta uno dei più diffusi settimanali europei, è altrettanto vero che si tratta di una rivista orgogliosamente “liberal” e globalista, con una linea editoriale pressoché granitica.

A dispetto della reazione molto dura del settimanale nei confronti di Relotius, infatti, la questione essenziale resta un’altra: cosa vuol dire fare il giornalista presso un settimanale caratterizzato da un bias politico così forte? E quanto è condizionante, questo bias, per le legittime aspirazioni professionali di un giovane reporter? Per farla semplice, se Relotius avesse descritto gli abitanti di Ferguson Falls per quello che erano veramente, siamo sicuri che il suo articolo sarebbe stato pubblicato dallo stesso settimanale che ama rappresentare il presidente americano in copertina in termini grotteschi e mostruosi? E siamo sicuri che Relotius avrebbe raccolto gli stessi premi e onoreficenze, se avesse raccontato storie di tenore diverso? Sull’America come sulla Siria, o sul Global Warming?

Questione di schemi (mentali)

La vice-direttrice dello Spiegel con sconcertante candore ha ammesso, in riferimento agli articoli di Relotius, che “si (era) evidentemente creata un’illusione, e non avevamo gli schemi per riconoscerla”. Il punto è proprio questo: che lo Spiegel e i suoi tanti fratellini dell’informazione mainstream, quegli schemi sembrano proprio non averceli. I Relotius prosperano, acquisiscono fama e rastrellano onoreficenze in un habitat in cui si raccontano solo storie in linea col pensiero unico liberal-globalista. Che si tratti di una guerra, di una elezione, o del “Climate Change” poco importa: il lettore non viene informato ma educato, e cullato nelle certezze ideologiche sedimentate in anni di articoli monocordi: nuovi solo in apparenza, e in realtà sempre uguali, anzi, ossessivi. Come le copertine del settimanale tedesco.

E il Global Warming?


Copertina dell’Agosto 1986

…Ovviamente non poteva mancare, nell’armamentario della narrativa di un settimanale mainstream altamente ideologizzato. Ovviamente con i soliti toni allarmistici e catastrofistici. Un precursore, lo Spiegel, visto che già nel 1986 pubblicava in copertina immagini di chiese sommerse dall’innalzamento dei mari. Eppure la nuova sede del settimanale è stata costruita solo pochi metri sopra il livello del mare, sulla foce dell’Elba. All’asciutto.

E pare proprio uno scherzo del destino, il fatto che l’ultimo pezzo dello Spiegel a portare la firma di Relotius (come co-autore) è proprio sul Global Warming: Affrontare l’inevitabile. Iniziano i preparativi per il Diluvio (Universale) da Climate Change”. Un articolo dai toni esasperati fino al ridicolo, con frasi da polpettone hollywoodiano del tipo: “Il diluvio è già cominciato. E non finirà in 150 giorni come quello della Bibbia. Questo diluvio è qua per rimanere”. A cappello dell’articolo in questione, campeggia il disclaimer con cui lo Spiegel avverte che gli articoli di Relotius “probabilmente contengono fabbricazioni e manipolazioni“. È un disclaimer che andrebbe bene per qualsiasi articolo della stampa mainstream sul Global Warming, mi viene da pensare.

Quel che è certo, è che un diluvio è davvero cominciato, e non da ieri: quello sulla credibilità di certa “grande stampa” che pretende di essere unica depositaria della verità. Il problema è che gli illustri alluvionati non sembrano essersene nemmeno accorti. Forse perché la testa l’avevano già messa sotto la sabbia da molto tempo. Da ben prima che cominciasse a piovere.