Autore: Massimo Lupicino
Data di pubblicazione: 17 Ottobre 2017
Fonte originale: http://www.climatemonitor.it/?p=46149
Che cicloni tropicali possano muovere in senso zonale verso l’Europa piuttosto che verso il continente americano, per quanto statisticamente raro, attiene in tutto e per tutto alla normalità climatica (ne abbiamo parlato). Che spostandosi verso il Nord Atlantico cessino di essere uragani, e vengano inevitabilmente degradati a cicloni extra-tropicali, ovvero a semplici depressioni atlantiche, è altrettanto normale.
E altrettanto normale, purtroppo, è diventato anche il rituale attraverso cui certa stampa trasforma eventi assolutamente banali dal punto di vista meteorologico in occasioni per gridare al disastro imminente e al clima impazzito. Eppure, nel caso specifico, basta tornare indietro con la memoria fino agli anni ’90 per ricordare che già Guido Caroselli, in un’epoca in cui l’informazione meteo veniva mediata tutta attraverso il piccolo schermo, usava aggiungere alla carta sinottica i nomi dei cicloni tropicali da cui originavano alcune depressioni atlantiche. Ancora oggi si tratta di una consuetudine diffusa per vari enti: il Servizio Meteorologico Nazionale tedesco, per esempio, non ha mancato di citare Ophelia nelle sue carte sinottiche, preceduto da una bella “Ex-” (Fig.1). Una “Ex” inevitabile, in quanto l’uragano in data 16 Ottobre era stato già retrocesso a ben più umile depressione atlantica.
Tuttavia la sarabanda di allarmismi e superlativi è andata avanti imperterrita a dispetto della retrocessione in questione: “Ora X”, “onde distruttive”, “allarmi rossi”, e poi i soliti numeri spiattellati a casaccio per impressionare, e nella realtà tutt’altro che da record, come il riferimento ad “accumuli fino a 50-70 mm”, dato tutt’altro che anomalo, per una vivace perturbazione atlantica. Sì, i fenomeni saranno intensi, si registreranno mareggiate e raffiche di vento inizialmente superiori ai 100 kmh. Ma anche questo attiene alla normalità climatica del Nord Atlantico, soggetto in passato a tempeste molto più intense di Ophelia, e senza che per questo venisse mai chiamato in causa il Climate Change.
Pistole fumanti (a salve)
Ma gli esempi di fatti assolutamente normali trasformati dai media in prodigi da fine del mondo per arrostimento sono ormai innumerevoli. Solo qualche esempio, relativo agli ultimi tempi:
- La piattaforma Larsen C, staccatasi in Antartide e trasformata in evento planetario clima-catastrofico, nonostante la regolarità con cui tali distacchi si ripetono nel corso dei decenni
- La “petroliera” russa a spasso per l’Artico senza rompighiaccio, fake news gigantesca e ridicola, e tuttavia rimbalzata da tutti i media del Globo con grande clamore.
- Il piagnisteo sullo stato disastroso dei ghiacci artici, che invece se la passano più che dignitosamente.
- La stagione dei cicloni nel Golfo del Messico, trasformata in prova inconfutabile dei danni da Climate Change nonostante la precedente, lunghissima serie di stagioni sotto tono mai messa in relazione con la narrativa sull’aumento dei fenomei estremi.
- Persino una moria di pinguini in questi giorni è stata occasione per stracciarsi le vesti contro il Climate Change. Moria “per troppo ghiaccio”, anzi no: “perché è piovuto troppo”. Con annesso diluvio di fake news climatiche sull’imminente scioglimento dell’Antartide, pur a seguito di una serie impressionante di record di estensione di ghiaccio marino antartico interrottasi solamente due anni fa.
Uno schema consolidato?
Il punto è che commentare le sciocchezze meteo-climatiche che si leggono sui giornali è diventata una impresa impossibile: come svuotare la chiglia del Titanic con un secchiello bucato. Sono troppe, crescono esponenzialmente, rimbalzano da una testata all’altra come biglie impazzite e a loro volta sono citate altrettanto a sproposito da politici, giornalisti, economisti, opinionisti e chi più ne ha più ne metta.
Si può provare a indovinare lo schema nei termini seguenti: i media più vicini agli enti politici che si occupano di climate change ricevono l’imbeccata di turno e la pubblicano, tal quale, senza battere ciglio. Altri media ripescano l’imbeccata e la ripubblicano in tutta fretta, senza nessuna verifica, per non “bucare la notizia”. E così le fake news originate da un pugno di giornali diventano un tam-tam planetario inarrestabile. Per carità, non c’è niente di così strano nel fatto che enti politici che campano di finanziamenti statali cerchino di tenere alta la tensione della narrativa sul Climate Change: si tratta di pura e semplice lotta per la sopravvivenza. La minaccia di tagli draconiani ad enti come l’EPA è un segnale chiaro per chi vuole intendere, così come il disinvolto abbandono da parte americana di club che si credevano eterni, come la COP21 parigina o, più recentemente, l’UNESCO (abbiamo parlato dell’una e dell’altro, in precedenti occasioni).
Normale è anche che i media politicamente vicini agli stessi enti politici sbavino come cani di Pavlov in reazione a qualsiasi evento para-climatico che possa ridare fiato ad una narrativa ormai esausta. Molto meno normale è che gli altri media si accodino senza nemmeno provare a verificare fonti, informazioni, eventuali deformazioni delle notizie: troppo più facile e comodo scopiazzarle e sbatterle in prima pagina. Ché verificare le notizie costa, e servono competenze scientifiche minime che evidentemente nelle redazioni di tanti giornali ormai non ci sono più.
Per il lettore consapevole, però, è altrettanto facile e comodo sfuggire alla morsa di una narrativa che ormai mostra la corda: andando a cercarsi le notizie altrove, abbandonando quei lidi considerati un tempo sicuri e dove oggi invece si fa della diffusione disinvolta di fake news climatiche una vera e propria professione. Salvo gridare a gran voce di fare esattamente il contrario. “Per il bene del lettore“, naturalmente.