Autore: Guido Guidi
Data di pubblicazione: 12 Novembre 2020
Fonte originale:  http://www.climatemonitor.it/?p=53769

Che gli uragani, per definizione gli eventi atmosferici più intensi, siano vivaci è un eufemismo. Che lo siano i revisori di una rivista come Nature è, invece, molto grave.

Andiamo con ordine. Qualche giorno fa, compare appunto su Nature un articolo, l’ennesimo, in cui si cerca di trovare qualche segnale di climate change nelle dinamiche degli uragani. Una ricerca che sin qui ha visto fiorire innumerevoli tentativi, da cui però non sono nati frutti. Per esempio, non ci è riuscito l’IPCC, che mettendoli tutti assieme continua a prevedere che prima o poi arriveranno ma è costretto ad ammettere che sin qui non ce ne sono. Però, siamo verso la fine di una stagione degli uragani decisamente attiva, per cui non si può perdere l’occasione di far uscire un paper che qualche segnale dice di averlo trovato. E non è cosa da poco:

Slower decay of landfalling hurricanes in a warming world, di Lin Li & Pinaki Chakraborty.

In pratica, il riscaldamento degli oceani metterebbe a disposizione più energia, quindi gli uragani, che normalmente sono soggetti a rapida attenuazione non appena toccano la terraferma, avrebbero invece la tendenza a conservare quell’energia più a lungo e quindi a restare intensi più a lungo.

Come sono giunti a questa conclusione gli autori del paper? Hanno studiato evento per evento la fonte di energia, il mare, trovando che questa era sempre superiore alle attese? Hanno misurato quell’energia dopo e durante l’ingresso sulla terraferma degli uragani? Niente di tutto questo a quanto pare. Sono andati semplicemente a vedere per quante ore, dopo il landfall, gli uragani restavano tali, prima cioè di tornare ai gradini più bassi della scala di riferimento di questi eventi.

Ora, gli uragani sono macchine termiche quasi perfette che si rompono proprio quando arrivano sulla terraferma. Esattamente come l’intensificazione, la fase di attenuazione è dovuta essenzialmente alle condizioni al contorno. Viene meno il contributo di calore fornito dall’acqua e c’è invece l’attrito, che impedisce che possa essere mantenuta una certa intensità. Questo significa però che perché ci sia l’attenuazione devono restare sulla terraferma, non sfiorarla appena o tornare sul mare dopo un fugace landfall, come accaduto per molte (quasi tutte) le tempeste che nel database di eventi raccolto dagli autori hanno fatto registrare un numero molto alto di ore di persistenza delle condizioni da uragano.

Togliendo dal DB tutti gli eventi che, di fatto, non sono rimasti sulla terraferma subito dopo averla toccata e sono quindi tornati sul mare ricevendo nuova energia, magicamente scompare il trend preoccupante che gli autori hanno messo in evidenza e su cui si sono buttati a pesce i soliti noti media, WP, CNN e NYT prima di tutti.

Questa operazione l’ha fatta Ryan Maue, uno dei massimi esperti di uragani e in questo TD su Twitter ci sono tutte le immagini dei percorsi degli eventi che gli autori si sono “dimenticati” di escludere e che i loro revisori, pigramente, hanno fatto finta di non vedere.

Qualche giorno fa, sempre qui su CM si è sviluppato un dibattito in cui si è parlato anche della rapidità con cui a volte i lavori passano il processo di referaggio. Non è questo il caso, perché gli autori hanno presentato il paper a gennaio ed è stato accettato a settembre. Nove mesi sono un bel po’, deve essere stato un lavoro pesante e articolato, per cui, come suggerisce giustamente Roger Pielke Sr, sarebbe proprio il caso di vederle quelle revisioni, per capire come mai, con tanto tempo e tanto lavoro, non si siano accorti dell’errore madornale compiuto in questo paper: andare a misurare i tempi di decadimento sulla terraferma di eventi che non erano sulla terraferma e che, a tutti gli effetti, sono gli unici a sostenere le loro conclusioni.

Come finirà? Come sempre. Il paper resterà lì, altri lo citeranno e, nel tempo, le loro conclusioni false diverranno vere.

Enjoy.